Nell’articolo che vi presentiamo, Ursula Moffitt, ricercatrice alla Northwestern University (Illinois) e esperta di identità razziale, esplora il rapporto con il razzismo nella Germania di oggi alla luce del suo passato coloniale.
Il pezzo originale è uscito in inglese e, in versione ridotta, in tedesco.
Note sulla traduzione
Race
Nel mondo anglosassone – sia nella ricerca accademica che nel linguaggio comune – “race” si riferisce a un costrutto sociale basato sull’esperienza nella società, che differisce, per ragioni storiche, a seconda dei fenotipi osservabili. Invece nel fascismo e nazismo la razza era ritenuto un concetto oggettivo biologico, da cui derivare caratteristiche di inferiorità – appunto considerate oggettive.
Abbiamo usato razza in corsivo per indicare sempre e solo il concetto anglosassone di race.
Colorblind
Originariamente considerato un concetto positivo di uguaglianza sociale, successivamente rivalutato in chiave critica. Si riferisce all’ideale di una società in cui la razza non ha impatto sulle esperienze dei singoli e sui loro diritti. Si è poi osservato che questa prospettiva rende invisibili le discriminazioni sistematiche a cui sono esposte le minoranze, e oscura le loro esperienze di marginalizzazione e la difficoltà di esercitare i propri diritti. É uno dei concetti passati da espressione di progressismo antirazzista in un’epoca ad espressione di una forma di razzismo nell’epoca successiva.
Letteralmente: daltonismo, incapacità di distinguere i colori.
Abbiamo usato il termine invariato in inglese in corsivo: colorblind.
Racial profiling
La pratica di sospettare o di prendere di mira una persona sulla base di presunte caratteristiche o comportamenti del gruppo razziale o etnico di appartenenza, piuttosto che sulla base di un sospetto individuale. Non si limita solo all’etnia o alla razza, ma può anche essere basata sulla religione o sull’origine nazionale dell’individuo.
Abbiamo usato il termine invariato in inglese in corsivo: racial profiling.

Nelle ultime settimane mi sono imbattuta in una serie di post che presentano la Germania come esempio modello per aver saputo fare i conti con gravi atrocità commesse a livello nazionale. Questa narrazione non è una novità, ma è tornata in auge ora che le statue che commemorano i generali confederati, i leader coloniali e altri, vengono abbattute negli USA e nel resto del mondo. Negli otto anni che ho trascorso in Germania, ho molto apprezzato cose come le sei settimane di ferie pagate o il non dovermi mai preoccupare di perdere la copertura sanitaria, ma più capivo come il razzismo e il suprematismo bianco continuano a plasmare la società tedesca, più mi sentivo a disagio con l’idea che la Germania dovesse essere considerata un modello nel campo delle disuguaglianze sociali. Invece, quello che possiamo imparare dalla Germania è che espiare i peccati nazionali del passato non aiuta le generazioni future finché non si smantellano i sistemi che hanno permesso che quei peccati si verificassero.
Alla fine degli anni Sessanta, dopo più di 20 anni di silenzio gravoso culminati nelle proteste studentesche, la Germania ha dato il via ad uno sforzo nazionale per “fare i conti con il passato”. Da allora, nei decenni successivi, sono stati eretti monumenti alle vittime dell’Olocausto e gli ex campi di concentramento sono stati trasformati in importanti musei e in strutture educative che testimoniano gli orrori compiuti durante il periodo nazista. Queste iniziative commemorative sono indiscutibilmente un’ottima cosa.
Eppure, questi siti, e la più ampia “cultura della memoria” coltivata intorno ad essi, raccontano solo una parte di una storia più lunga e complessa. Concentrarsi solo su questo estratto di storia tedesca è come celebrare Martin Luther King Jr. per “aver risolto” il razzismo. Nel caso della Germania, ridurre il campo di osservazione nasconde il filo conduttore tra la violenta costruzione della nazione del XIX secolo, il genocidio degli Herero e dei Nama del 1904-1907 per mano dei colonialisti tedeschi in quella che oggi è la Namibia, l’omicidio di nove persone in un shisha-bar ad Hanau lo scorso febbraio, e la violenza del suprematismo bianco che è stata più volte denunciata all’interno delle forze di polizia tedesche. Le atrocità dell’Olocausto possono essere collocate all’interno di questa linea temporale, tuttavia, senza un contesto storico-sociale, lodare l’assenza di monumenti a Goebbels, Rommel o Himmler offre ben poco di concreto da cui possiamo o dovremmo imparare.
Ho vissuto per la prima volta in Germania quasi 20 anni fa, grazie a un programma di scambio delle scuole superiori. Ero ospite di una accogliente e calorosa famiglia turco-tedesca, che ha contribuito a rimuovere dalla mia mente ingenua l’immagine di una Germania contemporanea prevalentemente “bianca”. Anni dopo mi sono trasferita di nuovo a Berlino come studentessa di master con l’intenzione di rimanere per un anno, che si è trasformato in otto. Sono tornata negli Stati Uniti lo scorso autunno dopo aver conseguito un dottorato di ricerca, che si è concentrato sull’identità nazionale tedesca e il concetto di appartenenza in relazione alla razza e al razzismo. Essere una ricercatrice straniera che si occupa di razzismo e di identità in un’università prevalentemente bianca e conservatrice ha portato a molti incontri tesi, anche in classe, sia come studiosa che come insegnante.
Ho insegnato nella scuola di formazione per insegnanti dell’Università di Potsdam, che si trova appena fuori Berlino, nell’ex stato della Germania dell’Est del Brandeburgo (proprio dove sorgeva una struttura di formazione nazista, poi trasformata in università della Stasi, anche se quasi tutti gli edifici originali sono stati demoliti). Nei miei seminari mi sono volutamente concentrata sulle linee di collegamento storico, dato che la maggior parte dei miei studenti non aveva mai studiato prima il colonialismo tedesco, anche se molti erano reticenti a colmare questo vuoto educativo. Dopo la conferenza di uno storico locale, che includeva informazioni su figure chiave dell’oppressione coloniale come Adolf Lüderitz, Carl Peters e Gustav Nachtigal (i quali hanno tutti avuto il nome di strade di Berlino in loro onore, che sono state rinominate nel 2018 dopo una lunga campagna condotta da attivisti tedeschi neri), alcuni studenti si sono lamentati a gran voce. Uno ha chiesto: “Ci viene già detto costantemente quanto siamo terribili per quello che è successo durante la Seconda Guerra Mondiale, quindi perché dobbiamo imparare altre cose terribili dal passato della Germania?”
Perché, in effetti? I miei studenti erano un misto di pendolari di Berlino (come me) e di abitanti di Potsdam e delle piccole città circostanti. Questo permetteva una diversità di esperienze di vita, ma, come accade agli insegnanti in tutta la Germania, la stragrande maggioranza erano bianchi, e la maggior parte erano donne. Mentre solo pochi dei miei studenti sostenevano apertamente il partito di estrema destra Alternativa per la Germania (AfD), che all’epoca stava rapidamente guadagnando terreno, esternazioni apertamente razziste non erano rare nelle mie classi di studenti che presto sarebbero diventati insegnanti, anche tra gli autoproclamatisi studenti liberali. Per esempio, in molti Stati tedeschi alle insegnanti è vietato indossare il velo religioso (con una giustificazione ad ampio spettro che può essere basata sulla “neutralità religiosa” a Berlino e sul cristianesimo in Baviera), una politica che ha dimostrato di avere un chiaro impatto negativo sulle donne musulmane (il che dovrebbe essere ovvio). Eppure, i miei studenti hanno subito citato la “mancanza di interesse per l’istruzione” come primo motivo per cui i turco-tedeschi hanno meno probabilità dei loro coetanei tedeschi di perseguire un’istruzione superiore, piuttosto che la discriminazione sistemica sempre più documentata che i giovani turchi tedeschi incontrano, o le politiche razziste come il divieto di indossare il velo.
Dopo circa un semestre di insegnamento, il confronto con il razzismo e la riflessione sul suo significato sono diventati parte del mio programma di studi, anche se i miei colleghi tedeschi bianchi mi dicevano continuamente che non era necessario, che stavo esagerando, che interpretavo le cose in modo sbagliato a causa della mia provenienza straniera. I tedeschi bianchi spesso rimproverano gli americani per la loro “ossessione” per la razza, ma quello che ho imparato in Germania è che non nominare la razza è uno dei modi più potenti per mantenere una società stratificata dal punto di vista razziale. Uso la frase “tedeschi bianchi” intenzionalmente, anche se è un descrittore raramente utilizzato in Germania – in particolare, anche se forse non è una sorpresa, dagli stessi tedeschi bianchi. La parola tedesca per “razza” (Rasse) è stata rimossa sia dall’uso popolare che ufficiale dopo l’Olocausto, ma la conseguenza di questo è stato un grosso vuoto, giustificato in chiave colorblind, che nonostante le buone intenzioni ha fatto sì che non si possano più facilmente individuare e sanzionare atti di razzismo.
Da quando la Germania è stata unificata come Stato-nazione nel 1871, una narrazione basata sullo ius sanguinis, o nazionalismo etnico, ha guidato le politiche di cittadinanza e stabilito chi è tedesco e chi è straniero. Nel 1999, dopo decenni di immigrazione da paesi come la Turchia, la Russia e le nazioni balcaniche, è stata approvata una nuova legge che ha ampliato la cittadinanza, non più basata solo sullo ius sanguinis. Questa revisione legale ha aperto la strada a un concetto di cittadinanza tedesca che riflette la diversità razziale, etnica e religiosa già presente nel paese. Solo nel 2014, però, è stata aperta la possibilità di doppia cittadinanza ai figli di cittadini extracomunitari, che in precedenza dovevano scegliere se prendere la cittadinanza tedesca o mantenere la cittadinanza dei loro genitori. Nell’ambito della mia ricerca di dottorato ho intervistato giovani adulti turco-tedeschi, la maggior parte dei quali si era trovata di fronte a questa scelta. Tutti avevano scelto la cittadinanza tedesca, ma erano arrabbiati e umiliati per aver dovuto dimostrare fedeltà al Paese in cui erano nati e cresciuti. Molti hanno notato che, nonostante si siano sentiti tedeschi per tutta la vita, avere un passaporto tedesco non impedisce di essere visti come eterni stranieri agli occhi di molti tedeschi bianchi.
Per essere chiari, il problema, per così dire, non si presenta dalla prospettiva dei miei intervistati, molti dei quali hanno descritto il loro desiderio di una vita normale in termini di semplice desiderio di essere riconosciuti come pienamente umani. Sono loro invece ad essere considerati “problematici” da un sistema che sostiene che le “differenze culturali” tra i tedeschi bianchi e i tedeschi di colore sono insormontabili, e che al tempo stesso sostiene l’approvazione di leggi che normalizzano l’esclusione razzista.
Fino ai primi anni 2000, era normale parlare di “tedeschi” e “stranieri”, nel secondo caso riferendosi a chiunque fosse “percepito” come non tedesco. È stato uno shock per me constatare che questo era il linguaggio ancora usato nei questionari indirizzati ai bambini delle scuole, quando sono arrivata all’Università di Potsdam nel 2014. Mi è stato detto che era per chiarezza – i bambini sanno facilmente distinguere tra “tedeschi” e “stranieri”. Quando ho sottolineato il razzismo sottinteso in questa spiegazione e il potenziale danno associato all’uso di questi termini, mi è stata impartita una lezione sulla mia stessa provenienza straniera. Anche se la mia perseveranza alla fine ha prevalso, il linguaggio accettato era stato plasmato in modo simile dallo spettro del razzismo in un paese che non riconosce la razza.
L’ufficio tedesco per il censimento ha introdotto il termine “persona con un background migratorio” nel 2004, definito in senso lato come chiunque abbia antenati non tedeschi fino a due generazioni indietro nel tempo, nel tentativo di riconoscere una nuova cittadinanza più inclusiva – senza nominare la razza. Negli ultimi 15 anni, il “background migratorio” è diventato onnipresente e molto spesso viene abbreviato semplicemente in “migrante”, indipendentemente da dove si è nati o da come ci si identifica. Così come “straniero” nei decenni precedenti, “migrante” è usato quasi esclusivamente per descrivere persone di colore, compresi i tedeschi di colore, anche se nella maggior parte delle discussioni il grande assente è proprio la precisazione “tedeschi”.
Senza questo contesto minimo, potrebbe sembrare poco chiaro il motivo per cui i politici di sinistra del Partito dei Verdi, e altri in Germania, chiedono la rimozione della parola “Rasse” dalla clausola chiave di non discriminazione della costituzione tedesca, nel mezzo della spinta globale per l’azione antirazzista. Negli USA il concetto di race è inteso come un costrutto esclusivamente sociale che però ha effetti materiali molto concreti. In tedesco, il concetto di Rasse è ancora appesantito dall’ideologia nazista e coloniale, come concetto pseudo-scientifico biologico – la definizione usata dai colonialisti e dai nazisti per giustificare la disumanizzazione e lo sterminio di milioni di persone. Il co-presidente del partito dei Verdi Robert Habeck, uno dei politici che sostengono la rimozione di Rasse, ha dichiarato: “Non esiste una cosa come la razza, ci sono solo persone”. Questo tipo di ragionamento colorblind trascura gravemente l’impatto del razzismo, finendo per sostenere, piuttosto che smantellare, le strutture che gli permettono di alimentarsi.
L’appello segue la scia della legge antidiscriminazione approvata nel Land di Berlino all’inizio di giugno, che aggiunge il colore della pelle alle caratteristiche che espongono a discriminazione, oltre al genere, alla religione e a molteplici altre categorie sociali. Questa legge offre un passo avanti per affrontare legalmente il razzismo che oggi è vivo e vegeto in Germania. Tuttavia, è necessario un cambiamento culturale, che deve includere una resa dei conti più dettagliata non solo con l’Olocausto, ma anche con la nozione stessa di “tedeschità”, e di come essa continui ad essere strettamente connessa con l’essere bianchi.
Azioni di larga scala, come gli omicidi mirati di tedeschi di origine turca e araba ad Hanau, Colonia, Dortmund e altrove, sono collegati a micro aggressioni quotidiane come la domanda “Da dove vieni veramente?” Il racial profiling contro i tedeschi neri è collegato alla reticenza a riconoscere i tedeschi neri come tedeschi a tutti gli effetti. Molto spesso il razzismo in Germania è insito nella xenofobia (Fremdenfeindlichkeit), che a sua volta ribadisce una nozione di “tedeschità” per esclusione, basata sull’essere bianchi. A determinare chi può accedere alla cittadinanza, chi viene etichettato come “migrante” e chi può essere fermato dalla polizia è una concezione razziale dell’appartenenza che risale a secoli fa, ben prima della seconda guerra mondiale e del nazismo.
Fino a quando queste linee di collegamento storico non verranno insegnate nelle scuole e collegate alla riflessione critica sull’essere bianchi e sul suprematismo bianco a livello nazionale, il razzismo rimarrà un elemento fondante nella società tedesca. Per comprendere il razzismo contemporaneo in Germania è necessario collegare i punti storici della costruzione della nazione etnica nazionalista nel XIX secolo con il sentimento “anti-migrante” di oggi. Continuare a lodare la Germania per come ha “affrontato” il suo passato rende invisibile il razzismo in corso, che plasma le opportunità e le esperienze di tutti i tedeschi di oggi.
Piuttosto che lodare la Germania per il lavoro che ha svolto, dovremmo fornire un supporto critico al lavoro che è rimasto da fare. Certamente non sono stati costruiti monumenti per celebrare il periodo nazista, ma al tempo stesso quel periodo non è stato adeguatamente rapportato a ciò che è venuto prima, o a ciò che è successo da allora. Questo è un errore dal quale sia la Germania che gli Stati Uniti possono e devono imparare.
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Ursula Moffitt ha conseguito il dottorato di ricerca in psicologia nel 2019 presso l’Università di Potsdam in Germania, dove ha lavorato sulla Diversità nella formazione e nello sviluppo. Attualmente è ricercatrice in Sviluppo delle identità nei contesti culturali alla Northwestern University (Illinois).