Ero allo stadio, sabato scorso, per la prima partita del 2024 della mia squadra, il Friburgo, SC Freiburg.
Dopo i rituali inni, quello del Baden e quello della squadra, dopo la lettura della formazione, usuali riti che coinvolgono l’intero stadio, i ventidue calciatori si erano disposti intorno al cerchio di centrocampo, completamente ricoperto da uno striscione listato a lutto che ricordava Franz Beckenbauer con la celebre maglia numero 5. Secondo il cerimoniale preparato dalla DFB, la federcalcio tedesca, per tutti i campi della Bundesliga, la speaker aveva letto il tributo al “Kaiser”, ricordando il più grande calciatore tedesco di tutti i tempi e di quanto avesse rappresentato nel mondo non solo il calcio tedesco, ma il Paese stesso. Minuto di silenzio, peraltro piuttosto breve, applauso.

A questo punto sullo schermo gigante dello stadio appare per qualche secondo l’immagine dell’allenatore del Friburgo Christian Streich visibilmente commosso. Non ci penso subito perché mi metto a seguire la partita, ma mi viene in mente il giorno dopo: Streich che si commuove per Beckenbauer pochi secondi prima del calcio di inizio significa qualcosa. Perché chi segue la Bundesliga sa bene che Christian Streich (ed il Friburgo) ben poco hanno a che vedere con la visione del calcio “manageriale” che il Bayern München aveva già cominciato a produrre durante i primi anni della carriera di Beckenbauer e che si è sempre più rafforzata nei decenni successivi, fino alla realtà attuale.

Eppure sbagliavo io, a stupirmi: quella commozione Streich l’aveva già “annunciata” nella conferenza prepartita, quando nel dialetto alemanno che usa quando è particolarmente emozionato, aveva spiegato cosa aveva rappresentato Beckenbauer per la sua generazione (Streich è del 1965): “Era tutto per noi”, ricordando come i successi da giocatore avessero accompagnato la sua infanzia e quelli da allenatore la sua carriera. Poi, senza interrompersi, e senza aspettare la domanda sulla figura controversa e criticata del funzionario Beckenbauer, “heuchlerische Bande!” aveva esclamato: banda di ipocriti. Si era riferito, l’allenatore del Friburgo, a chi a partire dal 2015 iniziò a identificare il Kaiser come unico capro espiatorio dei sospetti e delle accuse che macchiavano l’assegnazione della Coppa del Mondo del 2006. “Tutti abbiamo voluto quella manifestazione. Tutti. Tutti ne abbiamo approfittato, non solo calcisticamente ed economicamente ma soprattutto da un punto di vista sociale”. Le quattro settimane della Coppa del Mondo del 2006 – sostiene Streich – hanno dato al mondo un’immagine della Germania completamente diversa rispetto a quella presente nell’immaginario collettivo a partire dagli orrori della Seconda Guerra Mondiale. Tutti hanno voluto e tratto profitto da quel Mondiale: i politici, i funzionari, l’economia, l’intero Paese; ed è stato vergognoso – dopo – incolpare Beckenbauer di aver ottenuto quello che tutti volevano. Così dice Streich.

Noi non dobbiamo essere d’accordo con l’allenatore del Friburgo. Il giornalismo d’inchiesta, e ovviamente ancora di più la giustizia, ha il dovere di indagare e di non fermarsi davanti alle emozioni né alle categorie morali dell’ipocrisia, sulla quale Streich ha senz’altro ragione. Proprio il giorno della morte del Kaiser, l’8 gennaio, la principale rete televisiva tedesca, ARD, ha mostrato il documentario “Beckenbauer: leggenda del calcio tedesco” (che era già disponibile da giorni sulla mediateca) che sottolinea le molte luci, ma anche le molte ombre del Kaiser, come recita la didascalia ufficiale. Il documentario, della durata non casuale di 90 minuti, oltre a illustrare i trionfi del capitano (“spesso la squadra la faceva lui, non l’allenatore”, emerge dalle diverse interviste) e del commissario tecnico e a elencare gli aspetti controversi del dirigente (oltre alla vicenda dei “Mondiali comprati” si citano le diverse malversazioni e le accuse di evasione fiscale), mostra come Beckenbauer sia stato forse il primo calciatore “mediatico”, con veri e propri curatori d’immagine, consiglieri e partner d’affari esterni al mondo del calcio. Il film, ricchissimo di interviste a parenti (fratello, seconda e terza moglie), politici, ex-calciatori, dirigenti, giornalisti, si conclude con una didascalia quasi piccata: Franz Beckenbauer non è stato disposto a farsi intervistare.

La seconda rete televisiva tedesca, ZDF, è ancora più dura: in questo caso il documentario prodotto, in questo caso della durata di soli 45 minuti (metà partita) ha un titolo spietato (“Beckenbauer: Triumphe, Affären und Skandale”), dove la parola Affäre in tedesco indica sia la faccenda losca che la relazione extraconiugale.
Era semplicemente un uomo che non sapeva dire di no, come sostengono in molti, volendolo scagionare dalle accuse, o invece un freddo pianificatore di strategie calcistiche, d’immagine e manageriali, come mostrano i suoi successi? Forse entrambe le cose, perfetta contraddizione di quattro decenni, nel corso dei quali sia il calcio tedesco che lo stesso Paese sono profondamente cambiati. A cominciare dai nomi di persona: se si chiamavano Sepp ed Helmut, Berti e Günter i compagni di squadra di Franz che vinsero il Mondiale casalingo del 1974, ed ancora Oliver e Jürgen, Klaus e Lothar gli uomini di Franz che trionfarono a Roma nel 1990, la lettura dei nomi della squadra che nel 2014 corona al Maracanà la carriera del dirigente Beckenbauer racconta questa profonda trasformazione: Jérôme, Shkodran, Sami, Mesut, Miroslav…. Forse davvero Franz Beckenbauer ha realmente accompagnato da protagonista 60 anni di cambiamenti nel calcio tedesco e nella società.

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