State pedalando per andare a lavoro, superate l’incrocio quando dal cespuglio accanto alla pista ciclabile spunta fuori una paletta. Quindi vi fermate, mettete un piede a terra e sentite l’agente dirvi: “Führerschein und Zulassung, bitte” (patente e libretto).
Estraete dal portafoglio i documenti, glieli porgete, lui controlla la foto, poi vi guarda negli occhi. “Lei è passato col rosso”. “Guardi, era verde ma…”. E mentre voi tentate un’arrampicata di specchi a mani nude (per di più in tedesco con accento italiano, che non aiuta) lui inizia a girare attorno alla vostra bici, si piazza dietro, e compila una multa da 60 euro riportando il vostro nome, il vostro indirizzo, e anche una serie di numeri e cifre che legge sul retro: il vostro numero di targa.
“Questo le costerà un punto della patente”.
Dopo che la Polizeipräsidentin berlinese Barbara Slowik ha parlato al Berliner Morgenpost di targhe per le biciclette, ho iniziato a raffigurarmi scenette di questo tipo e a immaginare la mia – e la vostra – vita da ciclista qualora sotto la sella non ci fosse, che ne so, una taschetta per l’antivento, ma un scomoda placca di metallo con sopra scritto amaramente in grassetto AK-23752120B. Diciamolo: manco fosse un’auto.

Perché Frau Slowik vuole in pratica questo: che guidiamo la nostra bici con lo stesso atteggiamento e rispetto delle regole con cui guidiamo la nostra auto. Per la quale abbiamo preso faticosamente una patente (€), che abbiamo immatricolato (€), per la quale paghiamo un bollo (€), facciamo una revisione (€), un tagliando (€€€). Con la quale non guideremmo mai da brilli, o con i fanali spenti. Con la quale non ci sogneremmo mai di passare con il rosso o di invadere i marciapiedi.
Ecco il punto di Frau Slowik: una targa, con tutte le cose che ne conseguono (ci arriviamo dopo) ci indurrebbe ad essere utenti della strada più responsabili.

Ma prima di entrare nel merito del tema Fahrradkennzeichen, godiamoci la sensazione – non capita spesso – di quando un nuovo tema irrompe nel dibattito nazionale e, per di più, con le incoraggianti premesse per rimanerci a lungo. In Italia il trend topic per antonomasia è il Ponte sullo Stretto: per la serie “a volte ritornano”. E in Germania?
Indizio uno: riguarda le auto.
Indizio due: quelle che vanno veloci.
Dai che lo sapevate: l’annosa questione della Tempolimit (limite di velocità) nelle autostrade tedesche. Quel tema per cui il lunedì dice qualcosa Andreas Scheuer (l’eclettico ministro dei trasporti), poi il mercoledì gli risponde l’ADAC (l’associazione degli automobilisti) e i Grüne rilasciano una qualche sorta di dichiarazione a favore perché migliorerebbe la sicurezza, o il rumore, o l’ambiente o qualcos’altro. E poi il venerdì pomeriggio in autostrada guidi tranquillo sulla corsia centrale quando all’improvviso alla tua sinistra senti sfrecciare un paio di siluri, uno di seguito all’altro, che sprigionano una raffica di vento tale da spettinarti i capelli anche coi finestrini chiusi, ma che comunque ti strappano un sorriso: “Evviva, ancora non è cambiato nulla!”.

di 130 km/h in autostrada. Siamo a 135.206 firme.
E un topic ha la capacità di rimanere di tendenza a lungo se è in grado di tracciare un solco ben marcato esattamente a metà della popolazione. Per la questione Tempolimit questa cosa funziona alla grande: dagli ultimi sondaggi risulta un 47% a favore, un 46% contro, e il solito 7% che non si schiera, che rimane cauto, che sprofonda nel suo conflitto interiore, esattamente come quello in cui sono sprofondato io dopo il fulmine a ciel sereno di Frau Slowik.
Cosa ha detto Barbara Slowik
La Polizeipräsidentin ha rilanciato il tema della targa alle bici (le bici normali: quelle elettriche sopra i 25 km/h ne hanno già l’obbligo) alla luce della crescente aggressività degli utenti nell’ambiente stradale, bici comprese. Quindi ha portato un dato chiaro: più del 50% dei sinistri in cui sono coinvolti ciclisti, a Berlino, sono causati dai ciclisti stessi – ossia il ciclista ha infranto il codice della strada. Il fattore targa può diventare quindi rilevante nel caso di denunce, violazioni o incidenti con gravi conseguenze, dice Frau Slowik. O di Fluchtfahrer, quelli che chiameremmo “pirati della strada”, però in bicicletta.
Diciamo – così, come reazione a caldo – che Frau Slowik tutti i torti non ce li ha. Spesso, ahimè, i ciclisti pedalano dove non dovrebbero pedalare, come sui marciapiedi ad esempio. Oppure pedalano nel posto giusto, ma all’ora sbagliata: in molte aree pedonali in Germania le bici sono ammesse, ma non dalle 8 del mattino alle 8 di sera – è concesso invece di notte. A farlo siamo in molti, un po’ per imprudenza, un po’ per scarsa conoscenza delle regole, ma molto spesso per pigrizia. Ecco, è molto facile in questi casi che il ciclista calcoli una traiettoria, che il pedone compia un movimento improvviso e che venga istantaneamente cecchinato.
A Berlino in tre sinistri bici-pedone su cinque la colpa è della bicicletta, che verosimilmente ha fatto una delle cose menzionate sopra. Non una maggioranza schiacciante, ma ricordiamoci che, tra i due, le conseguenze più gravi le subisce principalmente il pedone, che quindi è la parte che piú spesso deve essere risarcita.
Frau Slowik vuole porre un rimedio a queste situazioni che, dati alla mano, si verificano sempre con maggior frequenza. Vuole che i ciclisti siano più attenti.
Resta però da capire come un semplice codice alfanumerico possa permettere di raggiungere questi obiettivi ambiziosi.
Targa: beh, quindi?
Targa vuol dire, a mio avviso, due cose fondamentali.
La prima è per forza una forma di assicurazione che copre il ciclista da eventuali danni arrecati ad altri utenti della strada, a causa di una sua infrazione del codice.
Da una parte un’assicurazione ha il concreto vantaggio che in caso di sinistro il risarcimento venga sempre corrisposto, senza inciampare in casi in cui il ciclista ne sia sprovvisto. Al momento attuale infatti entrerebbe in gioco la Haftpflichtversicherung (l’assicurazione di responsabilità civile), che copre dal caffè involontario sul laptop del capo (che non auguro) a danni più gravi commessi sulla strada (che auguro ancora meno). È però facoltativa: se il ciclista ne è sprovvisto, la questione si fa un po’ più complicata, e il risarcimento dovrà avvenire tramite fondi di garanzia alternativi (tipo la Verein der Verkehrsopferhilfe, l’associazione di sostegno alle vittime della strada).
Dall’altra parte si responsabilizza il ciclista, obbligandolo a stipulare un contratto e a pagare una quota annuale, soggetta magari a meccanismi di bonus/malus. Questa “presa di coscienza” dovrebbe avvenire secondo il principio per cui “ho deciso di pagare un corso di tedesco, quindi mi impongo di studiare regolarmente” (circa).
La seconda è la rintracciabilità. Quando compriamo una bici dovremmo infatti prima immatricolarla presso un ufficio che associ la targa al nostro nome, e a quel punto ci ritroveremmo all’interno di un database, che potrà essere consultato all’evenienza.
Poi le cose possono cambiare leggermente a seconda della grandezza della targa. A mio avviso, piú grande è la targa, più grande sono le potenziali conseguenze.

Se deve essere in bella vista, quindi leggibile alla distanza, allora potrebbe aprirsi la strada verso i sistemi di automatische Nummernschilderkennung (riconoscimento numerico automatico) o genericamente di Videoüberwachung (videosorveglianza) – detto in tedesco spaventa ancora di più. Quindi da una targa visibile sulla bici alle multe recapitate per posta il passo potrebbe essere breve. Lo sapete, oramai con tecniche di video recognition si può fare praticamente tutto.

Se è piccolina – diciamo un adesivo, o una targhetta, o una contrassegno da qualche parte – allora scongiuriamo le multe senza riscontro diretto (cioè servirebbe per forza un vigile che sul momento ci colga con le mani nel sacco), ma rimaniamo sempre rintracciabili.
C’è comunque da segnalare il vantaggio che una bici con un codice, soprattutto se impresso, è un buon deterrente per chi le bici le ruba. A questo scopo l’ADFC (l’associazione delle biciclette) propone costantemente appuntamenti per la Fahrrad-Codierung: 15 euro, e mi sento un pochino più al riparo dai furti.
Ma vi dicevo del mio conflitto interiore, no? È breve. E poi una storiella per concludere.
Le due correnti di pensiero
Una parte di me pensa che la bicicletta, sebbene non sia dotata di un motore a propulsione ma della sola forza delle gambe, sia a tutti gli effetti un mezzo potenzialmente molto pericoloso. Questa parte di me pensa che a questo grande potere corrisponda una grande responsabilità: quella di stare sulle piste ciclabili, di avere le luci funzionanti, di rispettare gli stop, eccetera. Anche se piove e ci sono meno dieci gradi e anche se il SUV accanto sta ascoltando musica techno di qualità con il sedile riscaldato. Questa parte di me sostiene che il rispetto degli automobilisti ce lo guadagniamo solo se non facciamo i furbi e se sulla strada rispettiamo pedissequamente le regole, seppure attualmente ci siano – chiaramente – disparità di diritti fra “noi e loro”. Quindi ne conclude che il dovere di una targa sia l’unica vera chiave per esigere in cambio più diritti. In fondo, solo regolarizzandoci potremmo richiedere una regolarizzazione degli spazi stradali e ottenere, ad esempio, piste ciclabili più larghe.
L’altra parte di me pensa invece che la Verkehrswende (la svolta nella mobilità di cui in Germania si parla da anni) possa avvenire solo se i mezzi sostenibili verranno fortemente incentivati rispetto a quelli non sostenibili, anche con scelte drastiche e magari discutibili.
Pensa che l’obbligo di una targa non possa rendere più responsabili quella larga fetta di ciclisti responsabili, perché responsabili già lo sono. Mentre per gli altri – quelli che, per intenderci, dimenticano sempre le luci a casa – si innescherà il principio per cui la bici rimarrà in cantina e magari prenderanno un e-roller, che poi abbandoneranno di sbieco sul marciapiede facendo imbestialire il sottoscritto. Quindi ne conclude che una targa non possa che penalizzare la mobilità ciclabile. Una scelta di questo tipo, seppur basata su motivazioni condivisibili, può rivelarsi un autogol per gli obiettivi di sostenibilità che questo paese sta cercando di portare avanti.
Io non saprei dire quali dei miei due grilli parlanti abbia più ragione dell’altro, ma c’è una storiella che ci offre una risposta parziale, o almeno ci indirizza verso il punto della questione. La storiella arriva dalla sponda opposta del Lago di Costanza e recita più o meno così:
C’era una volta in Svizzera la Velovignette. Tutti i ciclisti ne avevano una e pagavano regolarmente una quota assicurativa. Chi ne era sprovvisto e veniva sorpreso a pedalare senza assicurazione pagava una multa di 40 franchi.

Beh, tutt’altro che una storiella a lieto fine, direte. Ma il lieto fine invece c’è ed è un altro: nel 2011 il consiglio federale di Berna ha abrogato tutto.
La targhetta era in pratica la prova del pagamento di una quota assicurativa (la Haftpflichtversicherung). Esisteva già da moltissimo ed è stata fino al 1989 una vera e propria placchetta di metallo, anche molto costosa. Con il passare del tempo però gli svizzeri hanno cominciato a fare a gara a chi stipulava più assicurazioni, compresa la Haftpflichtversicherung, che fra tutte era una delle principali. Alcune erano addirittura estendibili, con degli extra, per coprire la casistica degli incidenti in bicicletta. Il governo a quel punto si è chiesto se fosse il caso di tenere in piedi un sistema di assicurazioni “extra” per le biciclette alla luce del fatto che già il 90% dei ciclisti possedeva una Haftpflichtversicherung.
L’esperienza svizzera ci suggerisce che se il punto della targa è un’assicurazione – quindi poter risarcire in caso di incidente – allora dobbiamo valutare soprattutto in base all’indice di copertura della Haftpflichtversicherung. E dato che in Germania siamo poco sotto (85%), forse una cosa del genere non ci serve. Il gioco non varrebbe la candela.
Tuttavia, mi sembra, qui stiamo parlando di qualcos’altro. Slowik si lamenta dello scarso rispetto delle regole, dei ciclisti aggressivi, di quelli sui marciapiedi. E qui ci sono molti fattori in gioco: sociali, culturali, psicologici. È difficile dire se una targa ci renderà ciclisti migliori. O almeno, non sarà un semplice numero a dircelo.
Proprio per questo il dibattito ci accompagnerà a lungo: si formula facilmente (targa sì – targa no), ci divide in due schieramenti, ma soprattutto non troveremo mai una risposta che ci accontenterà tutti.
Che poi, per curiosità, chiedo: ma voi, sto benedetto ponte sullo stretto?