Christiane F., ritorno al futuro

Il remake firmato Amazon del film che sconvolse i tedeschi

Wir Kinder vom Bahnhof Zoo è un remake atteso da quarant’anni, dopo l’omonimo film del 1981, ispirato al celebre libro di Christiane F., un bestseller che deflagrò come una bomba nella società tedesca alla fine degli anni Settanta.

La pellicola di Udi Edel, all’epoca all’esordio, riuscì a trasmettere con una resa minimale e sporca, al netto delle sue intrinseche ingenuità, l’incubo di tossicodipendenza e prostituzione dei bambini che gravitavano attorno alla stazione dello zoo. La serie targata Amazon opera una metamorfosi del romanzo-verità nonché dello specchio filmico crudelmente sgranato del primo film, giungendo a una versione più colorata e sgargiante, per non dire modaiola.

Christiane è un’adolescente berlinese, trasferitasi in città dalla campagna, che si lascia attrarre del mondo trasgressivo del Sound, la discoteca più in voga della capitale. S’innamora di un compagno di scuola, ma il flirt va a finire male; a casa, il padre molle e sognatore si scontra ripetutamente con la madre, assai più pragmatica, e la ragazza non può far altro che assistere impotente alle loro frequenti crisi. Così, trova rimedio alla frustante quotidianità nelle prime esperienze con la droga insieme alle amiche Stella e Babsi e, dopo aver conosciuto Axel e Benno, due giovanissimi operai che fanno uso di eroina, inizia anche lei a bucarsi.

Gli otto episodi portano la firma di Annette Hess alla sceneggiatura, già autrice di altre serie di successo in Germania, come Ku’damm 56 e Ku’damm 59. Uno degli strappi di questa versione rispetto all’originale è la scelta di puntare su personaggi e attori decisamente più grandi: la nuova Christiane, interpretata dalla ventunenne Jana McKinnon, così come Stella, Babsi e i loro amici Axel, Benno (il corrispettivo di Detlef) e Michi sono dei ragazzi alla fine delle loro adolescenza; così, le terribili vicissitudini dei bambini costretti a farsi negli squallidi bagni pubblici della stazione, insieme ai giovanotti e alle quattordicenni finiti a battere sul marciapiede della Ku’damm, suonano un po’ meno atroci, anche perché rielaborate dentro l’atteggiamento ribelle e provocatorio, persino un po’ trendy, tipico di quell’età, invece che nel vuoto cosmico di chi non è diventata ancora una ragazza. Inoltre, il taglio delle storie si fa decisamente più corale, e nonostante Christiane ne resti il centro, Wir Kinder vom Bahnhof Zoo prova a raccontare i suoi amici e le loro famiglie a tutto tondo. Una scelta che allarga il campo della narrazione e distingue ancora una volta la serie rispetto al film di Edel, la cui macchina da presa restava claustrofobicamente attaccata al corpo di Christiane; ciononostante, di nuovo non c’è traccia della sua infanzia trascorsa tra i casermoni alienanti di Gropiusstadt, che costituivano invece nel libro un incipit fondamentale per capire il malessere, legato alla voce in prima persona, nuda e affilata, della narratrice. Pure, nella serie le vicende riescono talvolta a lasciare il segno, soprattutto quando si soffermano su Axel e il suo futuro strappato dall’eroina, nonché sulla solitudine di Babsi, passata alla storia come la più giovane eroinomane di Berlino a morire di overdose.

D’altro canto, la scelta di ambientare il racconto negli anni Settanta, infarciti volutamente di anacronismi, avvicina la serie più a un incubo postmoderno che a uno spaccato di vita vissuta. Alle onnipresenti hit di David Bowie fanno eco la musica techno, l’hip-hop e l’indie-rock contemporaneo, come Florence and the Machine, Cigarettes After Sex, The Heavy e altre band. Anche i vestiti e le automobili (vedremo delle Audi Cabrio girare per Berlino Ovest), nonché il modo di parlare e di atteggiarsi di questi ragazzi prendono a piene mani dai decenni successivi e dalla modernità, raggiungendo così un risultato indecifrabile, in una sorta di scompaginamento del tempo, un assemblaggio di epoche diverse tipico dei prodotti culturali del nostro tempo, di cui aveva teorizzato anche il critico Mark Fisher.

La regia degli episodi, affidata a Philipp Kadelbach, che qualche anno fa aveva firmato la discussa ma riuscita miniserie sulla seconda guerra mondiale Unsere Mütter, unsere Väter (conosciuta anche come Generation War), propone un coacervo di pulsioni iperrealistiche, pronte a rimarcare il destino di Christiane e dei suoi amici. Le riprese in soggettiva di narici che sniffano, dei liquidi che viaggiano dentro le siringhe e poi nelle vene, le immagini di tunnel e aghi, i corpi strafatti che danzano verso il soffitto della discoteca o che sprofondano nei letti, le pareti di casa che si allargano verso altri mondi, sono riproposti senza soluzione di continuità: in questo, la “mitologia del buco” somiglia a ciò che la Generazione X aveva visto venticinque anni fa al cinema, col celebre Trainspotting del 1996. Nel film di Danny Boyle, tuttavia, l’irriverenza di Mark Renton e soci derivava da un romanzo pieno di situazioni al limite del grottesco, che in qualche modo anestetizzavano con un ghigno caustico la tragicità della dipendenza, anche perché – pur ispirati a certi ambienti punk scozzesi di fine anni ’80 – i racconti originari di Irvine Welsh erano sostanzialmente fiction. Invece, quella di Christiane F. è una storia vera, e tutto l’impianto lussureggiante che la serie propone è ad “abuso e consumo” del nuovo pubblico dello streaming: come la disintossicazione fai-da-te di Christiane e del fidanzatino Benno, vero pugno allo stomaco nel film di Edel, che qui viene rappresentata quasi in modalità cool.

Domenico Ippolito

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