Vorrei entrare subito nel vivo della faccenda e scrivere del momento in cui ho sentito la Stadthalle di Offenbach vibrare per il boato degli spettatori quando Nino D’Angelo, tra una strofa e il ritornello di Jesce sole, ha urlato “viva il Sud”.
Ma cominciamo con ordine.
Il Concerto 6.0 Tour è la tournée di Nino D’Angelo partita all’inizio del 2018 per radunare e portare in giro per l’Europa l’entusiasmo enorme del concertone di giugno 2017 allo stadio San Paolo di Napoli, appunto quel Concerto 6.0 con cui l’ex caschetto biondo ha celebrato i suoi primi 40 anni di carriera. È un tour europeo che fino a ora ha toccato oltre l’Italia anche il Belgio, la Francia, la Germania e soprattutto la Svizzera, dove ben tre date consecutive a Zurigo hanno segnato velocemente il tutto esaurito. Non bisogna meravigliarsene: lontano dalla sottovalutazione e dagli snobismi nazionali, le canzoni di Nino godono dell’assenza di qualsiasi pregiudizio sui temi, sulle melodie, sulla lingua, su quel generosissimo glissato che caratterizza la canzone napoletana, e quindi radunano a nord delle Alpi folle di ammiratori che nel settentrione italiano sarebbero impensabili. Non per niente la sua tournée appunto europea si è fermata solo due volte nel nord Italia, a dispetto delle ben sette date svizzere.
Dunque domenica scorsa, il 31 marzo 2019, il tour è arrivato a Offenbach e, siccome il richiamo della napoletanità è qualcosa da cui non si prescinde, ho tirato mia sorella fuori dalla sua famiglia poco italo e molto tedesca e l’ho portata a vedere Nino.

Il palazzetto è pieno come un uovo. La capienza massima di quattromila spettatori sembra ampiamente raggiunta, e in giro si sentono frasi in napoletano, siciliano, pugliese e tedesco. Nino è sempre stato un’icona dell’intero Meridione, e il pubblico della Stadthalle è una valida dimostrazione di ciò. Ci sono meridionali accorsi da tutta l’Assia e anche da fuori. Soprattutto c’è gente di ogni generazione possibile, dai ragazzini agli ottantenni. È la prima volta in vita mia che mi stupisco dell’eterogeneità anagrafica del pubblico di un musicista. La generazione più rappresentata sembra essere la mia, quella dei nati negli anni 70, che hanno assistito da bambini o da adolescenti agli esordi cinematografici di Nino sulle reti private napoletane: Celebrità, Un jeans e una maglietta, La discoteca, Quel ragazzo della curva B e tutti quegli altri film che, sul ripetitivo canovaccio di semplicissime storie d’amore identiche tra loro, hanno veicolato la sua musica fino al cuore della cultura popolare napoletana, penetrandola con velocità e intensità mai viste prima e dettando i canoni per almeno due generazioni successive di musicisti cosiddetti neomelodici. Gli anni ‘80 a Napoli sono stati gli anni di Nino, anni felici nonostante i problemi, e rimasti musicalmente nel cuore dei napoletani. Se io penso alla Napoli degli anni ‘80, penso al caschetto biondo sul viso smunto del giovanissimo Nino D’Angelo. Soprattutto penso a un artista che, a differenza di altre icone ultrapopolari della Napoli da quegli anni in poi, non è mai stato in odore di frequentazioni losche e si è fatto portavoce solo di messaggi positivi sebbene banalotti.


Acclamato come una grande rockstar, Nino compare sul palco all’orario previsto, comincia subito con un cavallo di battaglia, Batticuore, e il pubblico esplode. I posti a sedere assegnati in platea e galleria non significano più niente: il popolo delle canzoni di Nino D’angelo sale sulle sedie, balla negli spazi liberi, canta fino a sgolarsi, si ammassa sotto il palco. “Grazie popolo delle mie canzoni” è ciò che dirà più spesso dal palco alternandolo a “vi amo” in un crescendo di giubilo fino al dirompente “viva il Sud”.
Il concerto scorre euforico in una mistura oculata di brani della parte più matura della sua carriera e canzoni celeberrime di quella parte camp degli esordi. Jammo ja’, Jesce sole, Ventuno e Trenta, Senza giacca e cravatta si alternano a Popcorn e patatine, Nu jeans e na maglietta, Pronto si’ tu?, fino all’omaggio a Pino Daniele che la platea dimostra rumorosamente di apprezzare oltremodo.

Il pubblico vuole così tanto da Nino che il concerto, nella sua parte finale, non può che evolversi in un lunghissimo medley che concentra tutto il meglio della sua carriera. Accanto ho una sorella urlante, sono circondato da quattromila persone che conoscono a memoria il repertorio dangeliano e, mentre anche io canto a squarciagola il ritornello di Sotto ‘e stelle, canzone a me cara, mi ritrovo a constatare vergognosamente l’ovvio: ho fatto l’errore di affrontare questo concerto con lo spirito di una ricerca sociologica. Volevo vedere chi e quanti sono i fan di Nino D’Angelo a Francoforte e dintorni, volevo capire che tipo di gente prende e si precipita in massa a un suo concerto a Offenbach, soprattutto volevo aspettarmi qualcosa di antropologicamente interessante su noi migranti meridionali di cui raccontare il giorno dopo, e invece mi sono ritrovato immerso nella gioiosa banalità di gente innamorata di un artista, una folla che di antropologicamente interessante non ha niente da mostrarmi se non la felicità corale esercitata platealmente (è proprio il caso di dirlo) in gruppo da quattromila, e la bellezza e il privilegio di essere del Sud.
Esco dalla Stadthalle tirandomi via mia sorella che invece vorrebbe intercettare Nino nei pressi di qualche uscita sul retro per comunicargli con fierezza che nostra madre è di San Pietro a Patierno, il suo stesso quartiere, e me ne vado con una certezza: sono pochi gli artisti italiani così adorati dal loro pubblico, ma soprattutto sono pochi quelli della generazione di Nino che, come lui, ancora radunano adolescenti e ventenni in delirio euforico sotto il palco. A me viene in mente solo Vasco Rossi.
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(Dati statistici raccolti da Edoardo Toniolatti)