Quella che in Germania stiamo per lasciarci alle spalle è stata una campagna elettorale per le Europee decisamente poco scoppiettante.
Intendiamoci, non è una novità e non si tratta neanche di un caso isolato, visto che anche negli altri paesi coinvolti non si sono certo visti fuochi d’artificio – e in più va tenuto a mente che qui al governo c’è una Grosse Koalition esattamente speculare a quella che in questi anni è stata in cabina di regia in Europa, rendendo la contesa ancora meno avvincente.
Un sondaggio dell’istituto Civey, ad esempio, ha rivelato che addirittura i sostenitori dei principali partiti avversari, la CDU (che fa parte del PPE) e la SPD (che invece è nel gruppo dei Socialisti Europei), vedono poche differenze fra i due schieramenti, segno evidente della difficoltà degli elettori tedeschi ad orientarsi in una competizione sentita ancora come piuttosto distante.

Qualche differenza in più è emersa durante i dibattiti fra i candidati alla Presidenza della Commissione Europea, in particolare fra il conservatore Manfred Weber ed il socialista Frans Timmermans. I due si sono sfidati il 7 maggio in prima serata sulla rete televisiva ARD, e a detta di quasi tutti gli osservatori le diverse posizioni si sono delineate in maniera piuttosto netta, anche se raramente si è andati al di là di slogan un po’ superficiali.
Ad esempio, sul tema dell’ambiente i due hanno proposto visioni radicalmente distinte soprattutto su un punto, quello di una tassazione sulla CO2 prodotta (Weber contro, Timmermans a favore) di cui si discute da tempo in Germania, ma che rimane pur sempre solo una parte di una questione molto più ampia e complessa.
Eppure tutti continuano a ripetere che si tratta di elezioni cruciali, che è in ballo non solo e non tanto la direzione in cui si muoverà l’Europa nei prossimi anni ma addirittura la sopravvivenza stessa dell’Unione; e per di più ben due fra gli Spitzenkandidaten, i candidati di punta per la successione a Jean-Claude Juncker, sono nati in Germania: Weber per i conservatori, ok, ma anche Ska Keller, alla guida dei Verdi. Come mai, allora, i tedeschi nonostante tutto proprio non riescono ad appassionarsi a queste Europee?

Un interessante articolo apparso sullo Spiegel identifica tre ragioni principali per questo disinteresse generalizzato.
Uno dei problemi è rappresentato proprio dagli stessi candidati in gioco. Si tratta infatti per la maggior parte di politici molto navigati a livello continentale, decisamente a loro agio nelle commissioni e nelle sedi istituzionali di Bruxelles e Strasburgo, ma quasi sconosciuti per gran parte dell’elettorato: addirittura secondo alcuni sondaggi solo il 26% dei tedeschi ha idea di chi sia Manfred Weber, che pure viene dalla Baviera – anche se, considerati i rapporti non idilliaci fra i bavaresi ed il resto del Paese, forse non è proprio una sorpresa.
Anche il meccanismo elettorale, complicato e farraginoso, non aiuta in questo senso: il fatto che ad esempio in Germania si possa votare Weber ma non Timmermans, che è olandese e dunque non ha il suo “collegio elettorale” in terra tedesca, contribuisce a rendere poco chiaro il rapporto diretto fra la crocetta apposta sulla scheda e la sua conseguenza in termini concreti.
Infine, un fattore determinante è che a quanto sembra gli stessi partiti sembrano meno interessati di quanto ci si potrebbe aspettare: e lo si capisce dai soldi investiti per la campagna elettorale, più o meno la metà rispetto alle politiche del 2017. La SPD ha stanziato 11 milioni di euro, la CDU 10, i Verdi poco più di 2; per le Bundestagswahl 2017 le cifre erano, rispettivamente, di 24, 20 e 5,4 milioni. Meno soldi vuol dire, naturalmente, meno iniziative, meno incontri, meno pubblicità, meno eventi: e si tratta di solito di un indicatore abbastanza accurato della rilevanza che i partiti accordano alla tornata elettorale.
Come spesso capita, poi, anche in Germania le dinamiche di politica interna sono un elemento chiave per capire le mosse dei partiti e il loro posizionamento, per cui anche in questo caso anche se si parla di Europa si tiene sempre d’occhio ciò che succede a Berlino.
Questo è particolarmente vero per la SPD: reduci da una serie di sconfitte elettorali e sempre più lontani nei sondaggi dalla soglia psicologica del 20%, i socialdemocratici hanno disperatamente bisogno di ritrovare un’identità chiara e definita – e possibilmente alternativa a quella della CDU, con cui governano ormai da 6 anni. Probabilmente per questo motivo hanno deciso di impostare la loro campagna sui temi sociali e di sostegno al lavoro al reddito, e di candidare come capolista Katarina Barley: ex Segretaria Generale del partito e attuale Ministro della Giustizia, Barley è infatti uno dei volti più noti della corrente di sinistra.
Vedremo se basterà: come nota questo grafico elaborato dal blog Potsdamer Platz di Ubaldo Villani-Lubelli, la SPD è in calo costante dalle scorse Europee, e i sondaggi non sembrano avere pietà.

Lo sapremo presto, comunque: il 26 maggio è ormai davvero dietro l’angolo.
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