Lützerath è un piccolissimo paesino situato nel Nordreno-Vestfalia, a sud di Mönchengladbach e non troppo distante da Düsseldorf.
Ormai non ci vive più nessuno, eppure in questi giorni in Germania non si parla d’altro. Lützerath è un simbolo, ma si tratta di una definizione imprecisa. Più che un simbolo, Lützerath è tanti simboli – che vogliono dire cose diverse – mischiati insieme.

In primo luogo Lützerath è un simbolo delle proteste legate alla lotta contro il cambiamento climatico. Il paesino si trova infatti nella zona selezionata per l’ampliamento della Garzweiler, il grande bacino minerario da cui si estrae la lignite, e da tempo è diventato una barricata per gli ambientalisti che si oppongono all’uso di combustibili fossili. Già dal 2020 numerosi attivisti hanno iniziato a trasferirsi lì, cercando di bloccare le operazioni di sgombro e la demolizione del villaggio, che sarebbe dovuta essere completata per la fine del 2022. Si è provato anche a trasformare la questione in un caso legale, ma nel marzo scorso la corte di Münster, a cui gli attivisti si erano rivolti, ha deliberato a favore della RWE, il colosso minerario proprietario della Garzweiler, certificando in maniera definitiva il suo diritto a procedere con l’ampliamento del bacino e la demolizione del villaggio. In più a ottobre il governo nazionale e quello regionale hanno confermato i piani: l’estrazione di lignite nella zona terminerà (sulla carta) entro il 2030, ma intanto la Garzweiler va ampliata e Lützerath deve sparire. Ai primi di gennaio le operazioni di sgombro sono ripartite, e agli attivisti non è rimasto che mettersi fisicamente in mezzo bloccando le ruspe, scontrandosi con la polizia – immagini che sono finite su tutte le prime pagine dei giornali. Non roba da guerriglia urbana, intendiamoci, ma comunque scontri, in cui secondo alcuni osservatori la polizia ha usato la mano pesante. In migliaia sono arrivati a Lützerath, comprese figure di primissimo piano dell’ambientalismo tedesco e globale. Ad esempio Luisa Neubauer, leader di Fridays for Future in Germania, e soprattutto Greta Thunberg, che è tornata per partecipare a una grande manifestazione sabato scorso dopo esser già venuta a settembre del 2021. Parlando alla folla Greta ha usato un paragone estremamente efficace: la zona “sembra Mordor”, ha detto. “Mostra di cosa sono capaci le persone quando si trovano nelle condizioni sbagliate. Mostra ciò contro cui lottiamo, ciò che vogliamo impedire.”

Come spesso capita nelle manifestazioni ambientaliste, protagonisti sono soprattutto i giovani. E per questo Lützerath è anche il simbolo di un profondo scarto generazionale, che la questione climatica rende particolarmente evidente. Un tema che è sentito in maniera molto forte dalle nuove generazioni, con un’urgenza che invece non sembra venire raccolta dalle vecchie generazioni, che magari vedono il problema ma non riescono a comprenderne la gravità – anche perché altrimenti non saremmo a questo punto, dicono spesso gli attivisti non senza ragione. E non è solo il tema, o la percezione della sua urgenza, a scavare un fossato fra le generazioni: come è diventato sempre più chiaro in questi mesi, anche le forme e i modi della protesta rivelano una distanza insuperabile. Basta vedere le reazioni scatenate ad esempio da gruppi come Letzte Generation, attivisti radicali che durante l’anno scorso sono diventati famosissimi per le loro azioni. I video dei giovani che si sono incatenati agli edifici, hanno imbrattato con vernice o zuppa famose opere d’arte (o più precisamente: i pannelli di vetro che proteggono le opere d’arte) o si sono letteralmente incollati alla strada per impedire il passaggio delle macchine sono stati visualizzati milioni di volte, e hanno acceso un dibattito in cui le posizioni, spesso molto nette, sembrano legate a doppio filo all’età di chi le sostiene. Da un lato “giovani” pieni di ammirazione per gli attivisti che finalmente fanno qualcosa di eclatante, gettando luce su un problema che continua ad essere ignorato nella pratica, e dall’altro “vecchi” che invece perdono la testa dalla rabbia, insultando le proteste e chi le promuove, malmenando chi blocca le strade e arrivando a tanto così dal metterli sotto con la macchina. Naturalmente si può discutere a lungo sull’effettiva efficacia di forme di protesta così estreme e invasive, ma l’impressione è che ci si trovi di fronte a una vera e propria interruzione della comunicazione e della comprensione reciproca. Che come certe forme di linguaggio o certi aspetti della tecnologia e del mondo digitale – cosa significa cringe e come si usa TikTok – anche queste forme di protesta siano qualcosa che i “giovani” semplicemente “capiscono”, riuscendo a decodificarle e a trovarci senso, mentre i “vecchi” no.
Lützerath però non è solo un simbolo dell’ambientalismo: è anche un simbolo delle contraddizioni in cui può incorrere. Come notano alcuni osservatori, chi manifesta oggi contro l’ampliamento della Garzweiler e l’estrazione della lignite è anche chi manifestava ieri contro il mantenimento in attività delle tre centrali nucleari attualmente in funzione in Germania. Ma se abbiamo bisogno di energia, nell’attesa della piena autosufficienza tramite le rinnovabili, da qualche parte bisognerà pure prenderla. L’antinuclearismo è un elemento fondante dell’ambientalismo tedesco, uno dei pilastri intorno a cui sono si sono formati i Grünen fra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli anni Ottanta, e l’atomo è ancora il tabù più insuperabile per l’ecologismo in Germania. Ma per restare fedeli a questo sacro principio, nel lungo e tortuoso percorso della “transizione energetica” verso le rinnovabili e soprattutto in una fase di crisi energetica come quella scatenata dall’invasione russa dell’Ucraina, non si lascia altra strada aperta se non quella del carbone, che dal punto di vista ecologico e ambientale sembra essere molto peggio del nucleare. Una posizione che condivide pure Greta Thunberg.
Infine, Lützerath è il simbolo della leggerezza con cui la politica tedesca ha affrontato il tema della transizione energetica. La Germania da molti anni è un po’ come qualcuno che sa dove si trova e sa dove vuole andare, ma non si preoccupa più di tanto di come fare ad arrivarci. Il futuro energetico green del Paese è un obiettivo su cui sono d’accordo tutti, ormai, ma non è un traguardo che si può raggiungere da un giorno all’altro: e non si è preparato il periodo di transizione come si sarebbe dovuto, con cura e realismo, ma con dosi massicce di retorica e confusione. Un momento decisivo in questa storia è stato naturalmente il 2011, quando Angela Merkel decise di spingere sull’acceleratore del nuclear phase-out sfruttando l’ondata di paura generata nell’opinione pubblica dall’incidente di Fukushima. La scelta fu criticata già allora, non perché l’obiettivo di un maggiore investimento verso le rinnovabili fosse sbagliato, ma perché sembrava dettata più da una reazione di pancia che di testa: un accodarsi al sentimento popolare, assecondandolo e accarezzandolo anche per fini di popolarità immediata, invece che un tentativo di guidare un processo di trasformazione con una visione di lunga durata. L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha rivelato come il piano B che Merkel aveva in mente allora, e cioè il gas russo, fosse profondamente fallato. La storia di Lützerath mostra come probabilmente la sua decisione già in partenza non fosse una grande idea.