Le elezioni federali del 2025 in Germania, anticipate di sette mesi rispetto alla scadenza regolare per la caduta del governo di Olaf Scholz e della sua coalizione “semaforo”, ci hanno consegnato un risultato a tratti appeso ad un filo. Solo a notte fonda, con i risultati completi alla mano, è diventato chiaro quali partiti comporranno il prossimo Bundestag, il 21° della storia tedesca, e quali saranno le opzioni possibili per un nuovo governo.
Chiaro fin dal primo minuto è stato però un fatto democraticamente importantissimo – e centrale per l’analisi dei risultati: l’affluenza al voto è stata eccellente, raggiungendo con l’82,5% il livello più alto dalla riunificazione delle due Germanie (1990). Per trovare una partecipazione elettorale ancora più elevata bisogna tornare al 1987 per la vecchia Germania Ovest ed addirittura al luglio 1932 per elezioni pan-tedesche libere. È sì vero che dopo il record negativo del 2009 – le seconde elezioni dell’èra Merkel – già da più d’un decennio il trend della partecipazione elettorale e politica in Germania è positivo, ma la crescita dell’affluenza di oltre il 6% rispetto a tre anni e mezzo fa è l’indicatore migliore di un interesse diffuso, dell’impressione che si trattasse di un’elezione “importante” e che stavolta ciascun voto potesse davvero fare la differenza. L’ottima partecipazione elettorale è anche però l’unico risultato di queste elezioni che unisce tutta la Germania da nord a sud, da est ad ovest.
Iniziamo dal risultato definitivo delle elezioni (a confronto con il voto del 2021):

I due partiti democristiani CDU e CSU, la “Union” guidata dal candidato cancelliere Friedrich Merz, hanno vinto le elezioni. A Merz, capo dell’opposizione parlamentare nel Bundestag uscente, è riuscito quindi uno spettacolare ritorno in scena, dopo che nell’ormai remoto 2002 l’allora presidente della CDU, Angela Merkel, lo costrinse a ritirarsi dalla prima fila della politica, una mossa fondamentale perché la ex scienziata venuta dall’Est potesse poi diventare tre anni dopo Cancelliera. Merz si è dato per quindici anni politicamente alla macchia, rifacendosi una vita al di fuori della politica, ma poi al tramonto di Merkel è tornato, è riuscito finalmente a pacificare un’irrequieta CDU, ad accordarsi con la “sorella” bavarese CSU e a riportare entrambe alla posizione di primo partito del Paese. Salvo meteoriti o sbarchi dei marziani, Friedrich Merz sarà il prossimo Kanzler.

I successi, però, finiscono qui. Perché il risultato elettorale, a guardarlo bene, è – ad essere generosi – un po’ salomonico: sì, la Union ha sì vinto, ma non benissimo, e l’elettorato tedesco ha ripartito i propri consensi fra tutti o quasi, consegnandoci un parlamento piuttosto ingessato. I due partiti democristiani registrano sì una crescita dei voti sia in termini percentuali sia assoluti (+2,5 milioni di voti per la CDU rispetto al 2021, oltre mezzo milione in più per la CSU in Baviera), dimostrando così di avere saputo “partecipare” alla crescita di interesse e partecipazione al voto, ma i loro risultati rimangono sotto le aspettative: sotto al 30% nazionale, per la CSU sotto al 40% in Baviera. Il risultato “buono ma non buonissimo” di CDU e CSU non è certo una vittoria di Pirro, però lascia a Merz margini di manovra molto risicati nel prossimo parlamento, perché meno bene si vince, tanto più si dipende dagli altri, alleati o meno.
Merz aveva apertamente detto in campagna elettorale di augurarsi un risultato come quello in Assia nel 2023. Tradotto: Union nettamente sopra il 30% e con la possibilità di scegliere se fare una coalizione con i socialdemocratici o una con i Verdi. La realtà uscita dalle urne ieri è però un’altra: ad una Union sotto il 30% non resta che una sola opzione per andare al governo, quella di un’alleanza con la SPD. E persino questa, che una volta si sarebbe chiamata “Große Koalition”, è diventata una coalizione piuttosto piccola, con appena 12 seggi di margine. Basta un’ondata di influenza – o un progetto politicamente controverso – e la maggioranza è passé.

Questa tornata elettorale, inoltre, conferma una tendenza che avevamo già visto nel passato, con chiarezza ad esempio nelle già citate elezioni in Assia ed in Baviera dell’autunno 2023: i democristiani riescono sì a recuperare terreno, soprattutto conquistando (o riconquistando) elettori da partiti alla loro sinistra come i Verdi o la SPD (e questo vale sia per la CDU sia per la CSU), ma al contempo sono e rimangono vittima – come pressoché tutti i partiti – di un dissanguamento di consensi a favore dell’ultradestra di AfD. Un’alleanza di CDU e CSU con AfD, che tanti paventano più fuor di Germania che dentro, è non solo esclusa dalle distanze programmatiche e, consentiteci, dagli abissi ontologici che separano la Union e l’ultradestra, ma anche per ragioni di mera strategia politica: un abbraccio con AfD sarebbe mortale per la CDU, che si vedrebbe drenare ancor più elettori verso destra, mentre con sicurezza perderebbe milioni di voti al centro, esattamente lì dove i dati dimostrano che la Union invece riesce a recuperare consensi. Sarebbe un suicidio politico, e chi vuol continuare ad essere in politica non si suicida. Almeno finché ha altre possibilità.
La seconda forza ad uscire vittoriosa dal voto di ieri è però proprio la AfD, l’ultradestra etno-nazionalista e reazionaria. AfD raddoppia il proprio risultato percentuale rispetto al 2021 – dal 10,4% al 20,8% – e va anche oltre al raddoppio in termini assoluti – 10,3 milioni di voti contro 4,8 tre anni e mezzo fa. Così facendo AfD diventa secondo partito di Germania, una posizione nella quale dal 1949 ad oggi si erano alternati solo SPD e CDU. Alla CDU da sola, senza il contributo della bavarese CSU, riesce di rimanere il primo partito tedesco davanti ad AfD, ma ormai le distanze sono polverizzate. Il successo travolgente di AfD non nasce ieri, ma non neppure dobbiamo dimenticare che alle elezioni precedenti, quelle del 2021, davanti ai risultati del partito di ultradestra c’era un segno meno. La legislatura uscente, mentre Scholz e la sua coalizione si contorcevano al governo, è stata una cavalcata per gli “alternativi”, che già avevano raggiunto il 16% alle europee di giugno 2024 e superato il 30% in Sassonia e Turingia poche settimane dopo. Il risultato di AfD mette in luce una prima, profondissima spaccatura nel Paese, quella lungo l’ex confine fra le due Germanie Est ed Ovest.

Ad Est (in tedesco “Ost” in questa grafica della Süddeutsche Zeitung) AfD fa il botto, che rispetto al recente passato è un botto del botto del botto. Ormai contare i suoi successi in questa parte del Paese non ha più senso, sia solo detto che in Turingia AfD sfiora il 39% dei consensi, meglio della proverbiale CSU in Baviera. Persino nel collegio elettorale che dal 1990 al 2021, per oltre tre decenni, fu di Angela Merkel a trionfare è un candidato trentunenne di AfD con “peccati di gioventù” negli ambienti neonazisti. Certo, anche ad Ovest (“West” nella tabella) gli “alternativi” vanno molto bene e sono il secondo partito, ma il confronto dei dati complessivi purtroppo non regge: sono due paesi diversi in uno.
Non è questa la sede per indagare i motivi, senz’altro molteplici, che in Germania come nel resto dell’Occidente stanno portando ad una crescita apparentemente inarrestabile dei populisti di destra. Certo ci sono però indizi rilevanti, che anche i risultati elettorali di ieri confermano. A Gelsenkirchen, città ex industriale dell’Ovest più Ovest che ci sia, nella Ruhr, già roccaforte socialdemocratica da generazioni, la prima forza politica è proprio AfD. Pochi giorni prima del voto il settimanale Die Zeit, organo – permetteteci la semplificazione – della sinistra acculturata e borghese, aveva dedicato un ampio reportage proprio a Gelsenkirchen, mettendo in luce senza giri di parole i livelli di scontento causati da deindustrializzazione e ondate migratorie. E se persino la Zeit ammette che è lo scontento su migrazione e deindustrializzazione a mettere le ali ad AfD, forse conviene crederci.
La terza ed ultima vincitrice di queste elezioni è la Linke, il partito della sinistra tedesca. Quella della Linke è una vera risurrezione: solo un mese e mezzo fa tutti i sondaggi la davano inchiodata al 3%, lontanissima dalla fatidica soglia del 5%, tant’è che il partito aveva escogitato una campagna centrata su tre grandi vecchi – Gregor Gysi, Bodo Ramelow e Dietmar Bartsch – per aggirare la soglia di sbarramento grazie ad una clausola di salvaguardia per i collegi locali. La campagna per le tre “pantere grigie” è andata bene, ma di aggirare lo sbarramento non ce n’è stato bisogno alcuno, perché il partito ha ottenuto un ottimo 8,8% a livello nazionale – un risultato forte, chiaro e decisamente sopra le aspettative.
Il successo della Linke è sì sorprendente, ma non del tutto inaspettato. Torniamo all’ultima settimana di gennaio: dopo un nuovo fattaccio di cronaca, l’ennesima – purtroppo – aggressione all’arma bianca (con coltello) da parte di un uomo giovane, straniero (afgano) e non in regola con il titolo di soggiorno ai danni di malcapitati passanti (muoiono un bambino di due anni ed un quarantenne accorso per fermare l’assassino), Friedrich Merz decide di imporre una svolta alla campagna elettorale, presenta al parlamento una mozione sulla necessità di un più stretto controllo della migrazione ed accetta che questa passi anche coi voti di AfD. Una mossa maldestra in sé: per una mozione nemmeno vincolante, un mero appello senza effetto alcuno se non quello mediatico, Merz rompe con la conventio ad excludendum verso la destra estrema, qualcosa di gigante per la coscienza personale e collettiva di tanti tedeschi.
È stato il momento di svolta di questa campagna elettorale. Da lì in poi, per tre settimane, in pressoché ogni città tedesca c’è stata almeno una manifestazione “contro la destra”, contro AfD, ma di tutta evidenza anche contro Merz, la CDU/CSU e la loro mossa parlamentare azzardata. E questa mobilitazione ha portato i suoi frutti. Soprattutto a sinistra: la Linke è stata in grado di posizionarsi con successo come l’espressione partitica di queste piazze piene. Certo, piene in modo relativo: a Monaco una spianata della Oktoberfest stracolma ha scandito “Ganz München hasst die CSU!” – “Tutta Monaco odia la CSU!”, mentre ai seggi la CSU è arrivata prima in tutta la città, riconquistando anche quei collegi che nel 2021 erano stati vinti dal Verdi. Evidentemente, quindi, non tutta Monaco odia la CSU, anzi una maggioranza relativa la vota – ed in crescita per giunta, ma un segmento sociale e politico diverso c’è e la Linke è riuscita ad intercettarlo in pieno. In questo segmento sociale relativamente giovane, urbano e cosmopolita la Linke rediviva ha avuto successo anche perché ha saputo risucchiare voti in particolare ai Verdi, che non si potevano permettere di mettersi in una contrapposizione frontale e di principio con la Union: agli ecologisti lo vieta non solo la responsabilità istituzionale, ma anche la strategia e la volontà di rimanere un partito al centro del sistema, in grado di andare anche al governo, mentre la Linke era nella posizione ideale per raccogliere consensi facendo la voce grossa in piazza per poi rimanere all’opposizione ad oltranza in parlamento.
Ci sono – per concludere – due fattori da tenere in considerazione sia per il successo della Linke sia per quello “uguale e contrario” di AfD. Il primo è l’età. La Linke sbanca fra gli elettori più giovani, fra i quali è il primo partito (+19% dal 2021), ma anche AfD fra i più giovani va alla grandissima (+14% dal 2021). I risultati fra chi era chiamato al voto per la prima volta, le persone fra 18 e 21 anni, parlano chiaro:

La seconda dimensione è quella geografica. La Linke va fortissimo nella metropoli di Berlino, prima città del paese, dove è primo partito con il 20% dei voti. Il discorso del segmento sociale giovane, urbano e progressista trova qui la sua conferma più evidente. La Linke dimostra con questo successo di essere ormai nella fase avanzata di una metamorfosi da forza politica degli ex-comunisti dell’Est ad un partito moderno, rivolto in particolare a quei giovani che vivono nelle metropoli e cercano uno spazio politico ideologicamente chiaro, progressista, in opposizione non solo agli estremisti di AfD, ma anche ad una parte significativa dello spettro democratico. La geografia politica tedesca ci parla però, nel suo complesso, di un paese diviso non in due, ma in tre. Da una parte, il panorama politico di Berlino, con la netta vittoria della Linke, non sembra neanche apparentato con quello del resto della Germania. Elettoralmente parlando, ma sicuramente non solo per questo, la capitale è un paese a sé. A propria volta la metropoli sulla Sprea è però geograficamente circondata da una ex Germania Est che è di fatto un altro paese a sé, con l’AfD ad oltre il 36%. Mentre il terzo “paese nel paese”, il vecchio Ovest, pur fra tantissimi scossoni e tendenze continua ad esprimere un sistema politico relativamente affidabile al quale ora, se si andrà – come probabile – ad una coalizione fra democristiani e socialdemocratici, tutto la Germania si aggrapperà.
E Friedrich Merz, uno dei pochi se non l’ultimo politico tedesco ancora in circolazione ad essere stato nella prima fila già in una capitale di nome Bonn, dopo questa sua vittoria tutt’altro che travolgente avrà a che fare con una nazione ed un parlamento più divisi e difficilmente componibili che mai.

Fantapolitica: e se la Spd (con cui Merz è obbligato ad allearsi) pone un veto sulla persona di Merz o chiede garanzie che Merz non puo’/vuole dare?
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Al momento però la SPD è oggettivamente nella posizione più debole, per i negoziati. Un veto su Merz non sembrano poterselo permettere.
Ma per restare a uno scenario di fantapolitica, bisognerebbe vedere cosa decide di fare la CDU, che – nonostante non sia stato un trionfo – per ora pare compatta dietro il suo Cancelliere in pectore.
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