Man mano che ci si avvicinava alla data di queste elezioni anticipate, si delineavano con sempre più chiarezza quali, fra i partiti in lizza, stessero assumendo il ruolo di sconfitti annunciati.
Le urne, implacabili, non hanno fatto altro che confermare quanto si sospettava.

Da questa domenica elettorale emergono quattro sconfitti, in grado più o meno grave – due meno, due più. Ma andiamo con ordine, seguendo una scala decrescente di sofferenza.
La SPD
C’è poco da dire, per i socialdemocratici è una catastrofe di proporzioni bibliche. Il 16,4% racimolato è il peggior risultato di sempre, oltre nove punti in meno rispetto alla clamorosa e inaspettata vittoria del 2021. E una sconfitta di questa magnitudine significa una cosa sola: ricostruire dalle fondamenta. È questo il senso delle parole a caldo di Olaf Scholz. È stato un onore essere il nono Cancelliere della storia della Repubblica Federale; ma ora il compito di capire come mettere insieme un nuovo governo spetta ad altri. Scholz si fa da parte. Non del tutto, visto che manterrà il suo seggio al Bundestag, ma domenica sera ha segnato davvero l’inizio della fine della sua carriera politica. I ruoli di vertice, nel partito e nel governo, non saranno più roba sua.

Ma il rimescolamento fra i socialdemocratici non finisce qui. Lars Klingbeil, attuale capo del partito insieme a Saskia Esken, diverrà capogruppo al Parlamento Federale, ruolo cruciale per le trattative che verranno e che lo rende il nuovo uomo forte del partito. Ed è chiaro che non ci si fermerà lì, con un effetto domino che inevitabilmente travolgerà tutta la dirigenza all’insegna di un “ricambio generazionale” invocato da Klingbeil con toni perentori. Perché è vero che il responsabile in capo è l’ex Cancelliere, ma limitarsi a togliere di mezzo solo lui “sarebbe il passo successivo nella strada verso l’irrilevanza”, ha dichiarato l’ex capo del partito Norbert Walter-Borjans.
E fra i nomi per una possibile successione alla guida della SPD spunta anche quello di Anke Rehlinger, dal 2022 Ministerpräsidentin del Saarland dopo una vittoria alle elezioni locali che definire trionfale è eufemistico, visto che le ha consentito di diventare l’unica Prima Ministra tedesca a capo di un governo monocolore. Con Rehlinger (più un altro co-leader) alla guida del partito, e Klingbeil alla guida del drappello parlamentare, si aprirebbe la porta per un altro Genosse alla guida della compagine SPD in un’ipotetica (ma molto probabile) Grosse Koalition con i conservatori: e tutti gli indizi naturalmente portano a Boris Pistorius, il popolarissimo ex Ministro della Difesa che ha vinto nel suo collegio ad Hannover, e a cui il ruolo di Vice-Cancelliere sembra ormai cucito addosso. Tanto che ai giornalisti che gli chiedono a chi pensa si riferisse Klingbeil con la sua frase sul ricambio generazionale risponde deciso “di certo non a me”.
La FDP
Il secondo partito a uscire dalle urne completamente annichilito è la FDP. Fin dalle prime proiezioni uscite subito dopo la chiusura dei seggi era chiaro che sarebbe servito un miracolo, che puntualmente – come i miracoli tendono a fare – non è arrivato. I liberali si fermano a un misero 4,3%, confermando un loro infelicissimo marchio di fabbrica: quello che li vede restare fuori dal Bundestag subito dopo essere stati al governo. La stessa cosa successe infatti nel 2013, dopo la turbolenta esperienza del secondo gabinetto Merkel. L’emorragia di voti della FDP è schizzata da tutte le parti (addirittura verso la Linke), ma in particolare verso il resto dello schieramento di destra: un milione e 350.000 voti verso i conservatori, quasi 900.000 verso gli estremisti di AfD. Se c’è una cosa che abbiamo imparato, domenica sera, è che lo zoccolo duro degli elettori FDP non esiste più.

I liberali hanno pagato caro e hanno pagato tutto: la colpa di aver fatto crollare il governo semaforo, di essersi dimostrato un partner inaffidabile e capriccioso, e di aver mantenuto in sella un leader più concentrato su sé stesso che sui temi in ballo. È infatti su Christian Lindner che pesa tutta la responsabilità di questa carneficina, e la conseguenza non può che essere una sola: lasciare la guida del partito, e abbandonare la vita politica attiva. L’era del Narciso liberale è giunta al termine.

Anche qui, come per i socialdemocratici, si tratta di ricostruire, ma neanche da zero, da sottozero. Inizia una nuova, lunga fase di peregrinaggio fuori dal Parlamento Federale, una fase che richiederà un rinnovamento totale di volti, prospettive ed energie. Oltre a Lindner, infatti, lascia anche il Generalsekretär Marco Buschmann, suo fedelissimo.
Il problema è che non è molto facile capire da chi si può ripartire. Lindner ha sempre gestito la FDP come uno one-man-show, identificandosi completamente con il partito e non lasciando mai alcuno spazio per potenziali competitor. Tuttavia qualcuno si è già fatto avanti per raccogliere il testimone: Marie-Agnes Strack-Zimmermann, volto piuttosto noto ai tedeschi e spesso punto di riferimento, fra i liberali, per le questioni di politica estera e di difesa. E anche Wolfgang Kubicki, decano del partito e vice di Lindner, sembra intenzionato ad essere della partita.
I Grünen
Fra i socialdemocratici decimati e i liberali spazzati via, i Grünen non possono lamentarsi eccessivamente. Certo, non è un bel risultato, hanno perso tre punti rispetto al 2021, ma considerato il periodo da cui venivano e soprattutto com’e andata agli altri due compagni di coalizione nel governo semaforo, per una percentuale così non dico che ci avrebbero messo la firma, ma quasi. Certo è un brusco risveglio, dopo il sogno di far parte del governo che, sulla carta, si presentava come il più innovativo della storia tedesca recente e si riprometteva di rivoltare la Germania come un calzino. Secondo molti il merito di questa sconfitta contenuta è soprattutto di Robert Habeck, in grado di mantenere tassi di popolarità non catastrofici mentre i suoi compagni di governo andavano in pezzi sempre più minuscoli. Il candidato verde è riuscito sia a presentarsi come un’alternativa (più o meno) credibile, sia a non posizionarsi in maniera troppo esplicita in contrapposizione totale a Friedrich Merz, lasciandosi aperta una porticina per un’eventuale chiamata al tavolo delle trattative – porticina che però con un Bundestag senza FDP e BSW sembrerebbe essersi subito richiusa, perché con questi numeri una Grosse Koalition fra Union e SPD è sufficiente per governare, pur con una maggioranza sottile.

Ma c’è anche chi ritiene che sia stata proprio questa ambiguità di fondo a danneggiare il partito: ad esempio l’organizzazione giovanile, la Grüne Jügend. Secondo la portavoce Jette Nietzard l’errore è stato quello di non impegnarsi a sufficienza sui temi sociali, come ad esempio il caro-affitti: l’incredibile exploit della Linke mostra che quello spazio c’era, era disponibile e aperto per chi avesse davvero voluto prenderselo. Voler inseguire il voto moderato, alla ricerca del “gap di Angela Merkel” alla fine non ha pagato. A questo punto meglio stare all’opposizione, che “non è un premio di consolazione”: anche da lì si può influenzare il dibattito, come dimostra l’esperienza delle proteste per la lotta al cambiamento climatico del 2019.
E un’altra ragione è probabile sia da ricercare nello scandalo che ha coinvolto il candidato berlinese Stefan Gelbhaar, accusato di molestie sessuali alla fine dello scorso anno – una storia resa ancora più oscura dal fatto che, a quanto pare, la principale accusatrice sarebbe in realtà una donna inesistente, e che ha portato anche alle dimissioni della portavoce del gruppo sul femminismo della sezione di Berlino, Shirin Krebe, sospettata di essere l’autrice del falso.
Anche nel caso dei Verdi ora tocca ripartire, ma da una posizione un po’ meno infelice rispetto a quella in cui si ritrovano i socialdemocratici, e certo meno traumatica di quella in cui sono precipitati i liberali. Sappiamo però che qualcuno non farà parte di questo processo: e si tratta, un po’ a sorpresa, proprio del candidato Cancelliere, Robert Habeck. Dopo questa sconfitta il Ministro per l’Economia uscente ha deciso di non voler più ricoprire alcun ruolo di vertice nel partito. Si apre di nuovo uno spazio per Annalena Baerbock? Chissà.
Il BSW
L’ultimo degli sconfitti si trova un po’ a metà fra i due poli dello spettro del dolore riassunti fin qui. Dopo averci sperato per diverse ore, il Bündnis Sahra Wagenknecht si ferma a un nonnulla dalla soglia del 5% – il 4,972% – e resta fuori dal Bundestag. Da un lato, a voler vedere il bicchiere mezzo pieno, si può essere almeno un po’ soddisfatti: sfiorare l’ingresso nel Parlamento Federale, a praticamente un anno dalla fondazione, è un risultato di tutto rispetto. Ma dopo le aspettative covate fino a pochi mesi fa, quando si pensava di essere riusciti a svuotare la Linke e di veleggiare tranquillamente anche oltre il 7%, come si fa?

I risultati trionfali ottenuti alle regionali nell’Est del Paese dello scorso anno si sono rivelati tragicamente legati alla dimensione geografica. A Est il BSW va, e anche bene, arrivando in alcuni distretti a superare il 12%, ma a Ovest è buio pesto. Non solo: anche la storia del Bündnis che scippa voti ad AfD si è rivelata, per l’appunto, solo una storia. Agli alternativi il partito di Sahra Wagenknecht toglie solo 60.000 voti, noccioline in confronto a quanto toglie agli altri – soprattutto alla SPD e, va detto, all’insieme degli astensionisti.

Wagenknecht però non intende arrendersi senza lottare. Per raggiungere il 5%, e quindi poter entrare nel Bundestag, mancano poco più di 13.000 voti: e visto che sembrano esserci stati diversi problemi con il voto dei tedeschi all’estero, le cui schede pare non siano arrivate in tempo, il piano è quello di fare ricorso. Una mossa in realtà del tutto infondata, a sentire i giuristi, probabilmente fatta apposta per aumentare il livello di tensione e in qualche modo delegittimare il risultato uscito dalle urne – il che purtroppo è tragicamente in linea con quella che, in questi mesi, si è rivelata essere la personalità dell’ex pasionaria della Linke. Fra accuse di populismo eccessivo, continui scontri interni, una gestione organizzativa ai limiti della setta e del culto della leader, il futuro del BSW è tutt’altro che roseo. E Sahra Wagenknecht rischia di essere ormai diventata già troppo ingombrante per la creatura che ha fondato appena un anno fa.
