Una serie tv americana di pessima fattura è riuscita là dove centinaia di libri, pièce teatrali, film e trasmissioni televisive, migliaia di documenti e tutti i processi sui lager in tre decenni di storia postbellica hanno fallito: mostrare ai tedeschi i crimini compiuti contro gli ebrei in loro nome in un modo così forte, da sconvolgerne milioni.
Così apriva l’articolo principale dello Spiegel del 29 gennaio 1979, il primo numero comparso in edicola dopo quello che divenne a tutti gli effetti l’evento mediatico dell’anno: la proiezione in tv della miniserie americana Holocaust.
Holocaust è una serie tv made in USA prodotta nel 1978, che narra le vicende di due famiglie tedesche nella Berlino degli anni precedenti allo scoppio della seconda guerra mondiale, i Weiss e i Dorf.
I Weiss, di origine ebraica, se la passano piuttosto bene: il capofamiglia Joseph è un medico affermato, e il giovane figlio Karl, pittore, si è appena unito in un felice matrimonio con Inga Helm, una ragazza cattolica. Fra i pazienti del dottor Weiss c’è anche Marta Dorf, il cui marito Erik – giovane e brillante laureato in legge – fatica a trovare lavoro.
Su consiglio di Marta, sempre più insistente, Erik entra a far parte delle SS come ufficiale, mettendosi in luce in breve tempo e diventando in fretta il braccio destro di Reinhard Heydrich, capo della Gestapo.
Da questo punto in poi la serie segue i percorsi, speculari e intrecciati, delle due famiglie: l’ascesa dei Dorf e in particolare di Erik, inizialmente piuttosto freddo nei confronti dell’ideologia nazista ma molto allettato dal prestigio sociale e dai privilegi che derivano dalla sua posizione, tanto da diventare uno dei responsabili principali dell’esecuzione della soluzione finale dopo l’assassinio di Heydrich; e la discesa agli inferi dei Weiss, lungo tutti i gradini della persecuzione fino ai cancelli dei campi di concentramento.
Diretto da Marvin J. Chomsky – reduce dal grande successo di Radici – e con un cast di tutto rispetto, fra cui spiccano Meryl Streep e James Woods, Holocaust è una produzione tutto sommato tipica nei suoi pregi e nei suoi difetti, nel suo essere quello che definiremmo “un’americanata”. Non mancarono le critiche proprio su questo punto: in molti puntarono il dito su ciò che appariva a tutti gli effetti come una commercializzazione di bassa lega, come uno sfruttamento della più grande tragedia del novecento al solo scopo di tirarne fuori 8 ore di tv strappalacrime. Claude Lanzmann, il regista francese che qualche anno dopo avrebbe completato il suo eccezionale documentario Shoah, non esitò a liquidare l’operazione come una falsificazione hollywoodiana; e lo stesso Spiegel, in un pezzo pubblicato nel maggio ’78, aveva parlato con sdegno di Gaskammern (“camere a gas”) à la Hollywood. Parole durissime anche da parte di Elie Wiesel, che definì la serie offensiva nel suo tentativo, inevitabilmente fallito in partenza, di “rappresentare l’irrappresentabile”.
Che il tema fosse molto difficile da maneggiare, comunque, era ben chiaro ai produttori e al cast, che passò 18 settimane fra luglio e novembre del 1977 in Germania e in Austria per le riprese: alcuni degli attori raccontarono in seguito del profondo turbamento causato in loro dalla storia che stavano raccontando, proprio in quei luoghi. Si toccavano nervi scoperti: un giorno un uomo si mise a tirare bottiglie di birra contro la troupe, urlando “Voi ebrei vi ho già ammazzato una volta, vi ammazzerò di nuovo”. Addirittura qualche giorno prima della messa in onda a Coblenza fu danneggiata con l’esplosivo un’antenna della Südwestrundfunk, una delle emittenti che dovevano trasmettere la serie e che nelle settimane precedenti aveva già ricevuto minacce anonime, riconducibili a gruppi nazionalisti. Anche in Germania era chiaro che Holocaust non sarebbe stata una fiction come le altre, e che si sarebbe trattato di un vero e proprio evento mediatico. Le proporzioni che avrebbe assunto, però, non se le aspettava nessuno.
Lunedì 22 gennaio 1979, per la prima puntata, il 32% delle televisioni nella Germania Ovest erano sintonizzate sul terzo canale – die Dritten, “i terzi” al plurale perché raggruppava alcune tv regionali –, quello che trasmetteva Holocaust; il martedì si arrivò al 36%. Per l’ultima serata, giovedì, si toccò il 39%: per dare un’idea, in totale più di 20 milioni di tedeschi seguirono la serie. Ma ridurre le dimensioni del fenomeno al semplice successo di pubblico sarebbe un imperdonabile errore.
Le emittenti avevano organizzato per ciascuna sera una tavola rotonda con storici ed esperti, dopo la messa in onda: gli studi furono inondati di telefonate, più di 30.000, di telespettatori sconvolti da quello a cui avevano appena assistito.
Già dopo la prima puntata ci fu una vera e propria valanga di articoli sulla stampa tedesca, non solo sul successo della serie ma anche – forse soprattutto – sull’effetto che la visione aveva avuto sui tedeschi, e sullo sterminio degli ebrei durante il nazismo. Nelle scuole e nelle parrocchie furono organizzati incontri per parlare dello shock collettivo che stava attraversando un intero popolo; in Bassa Sassonia i turni nelle fabbriche furono fatti finire in tempo perché la gente potesse tornare a casa e mettersi davanti alla tv.
Non è che i tedeschi non sapessero, naturalmente.
C’erano stati processi, documentari, libri, opere d’arte, reportage: tutti sapevano cos’era successo al popolo ebraico nella Germania nazista.
Ma c’era – diciamo così – una distanza di sicurezza, non temporale, non dovuta ai decenni trascorsi, ma quantitativa, numerica: i 6 milioni di morti nei campi di concentramento rappresentavano una grandezza inconcepibile, ma proprio per questo, lontana, impossibile da comprendere e da affrontare. Innocua.
Un numero, tragico finché si vuole, ma solo un numero.
Holocaust, invece, riuscì a disinnescare l’inoffensività di questo numero: perché, come scrisse il filosofo Günther Anders, era stato in grado di “ritrasformare le cifre in esseri umani. E mostrare come i sei milioni di gassati siano stati sei milioni di individui”. Sei milioni di Karl Weiss, che stavolta i tedeschi conoscevano per nome, a cui si erano affezionati. Osservarne la discesa agli inferi rappresentò per i tedeschi, secondo Anders, un vero shock morale, “l’evento psicologico più profondamente radicale della storia tedesca posthitleriana”. Certo, magari la realizzazione lasciava a desiderare, magari c’erano inesattezze storiografiche, magari dinamiche di sceneggiatura un po’ troppo rozze e hollywoodiane potevano far storcere il naso ad alcuni critici: ma giudicare Holocaust con criteri estetici, afferma Anders, è immorale. Si tratta di “un’opera politico-morale, e come tale è stata appunto recepita”.
Non fu solo Anders a rilevare l’effetto straordinario che la serie aveva avuto sul pubblico tedesco. Molte critiche della vigilia, di fronte alla reazione che si stava registrando in Germania, si trasformarono in valutazioni più positive, proprio per quello che la fiction, pur non essendo un capolavoro, era riuscita a smuovere. Sulla Frankfurter Rundschau Heinz Galinski e Simon Wiesenthal, sopravvissuti ai campi di sterminio, descrissero il coinvolgimento emotivo mostrato dagli studenti come la “riabilitazione della gioventù tedesca”. Lo Spiegel parlò di un “evento mediatico dall’effetto morale”, una “catarsi”, e di Holocaust come vero e proprio “tema della nazione”.

La visione della serie, insomma, aveva innescato una reazione emotiva di proporzioni gigantesche, le cui conseguenze sulla costruzione della memoria storica collettiva e della vita pubblica furono evidenti. Basti pensare che, prima, i tedeschi non avevano un termine specifico per indicare lo sterminio degli ebrei. La formula usata era un generico Völkermord an den Juden, “genocidio degli ebrei”; dopo il gennaio 1979 si diffuse invece Holocaust, che dalla serie tv era passato a indicare direttamente l’evento storico, e venne scelto come Wort des Jahres (“parola dell’anno”) dalla Gesellschaft für deutsche Sprache (la Società per la lingua tedesca).
Gli effetti della serie tv non si fecero sentire solo sul piano del linguaggio. Alcuni mesi dopo, a luglio, il Bundestag decise di porre una fine al cosiddetto Verjährungsdebatte, la discussione parlamentare sulla prescrizione per i crimini di guerra durante il periodo nazista che andava avanti dal 1965. I parlamentari stabilirono che, per questi reati, non ci sarebbe stata prescrizione: una scelta dovuta naturalmente a numerosi fattori, ma in parte riconducibile alla nuova Erinnerungskultur (“cultura della memoria”) che Holocaust aveva contribuito a plasmare in modo inaspettato e tuttavia decisivo.
Proprio per celebrare il peso avuto da Holocaust nella costruzione della memoria collettiva, la tv tedesca ha scelto di trasmettere di nuovo la serie, in occasione del quarantennale della prima messa in onda. Lungo tutto il mese di gennaio, Holocaust è riapparsa su tre reti (WDR, NDR, SWR), insieme a un documentario dedicato alla sua realizzazione.
Una curiosità: ovviamente, nel 1979 di Germania non ce n’era una sola, ma due. Nelle zone di confine e a Berlino Est anche i cittadini della Repubblica Democratica poterono vedere la serie in tv. A inizio febbraio, un articolo pubblicato sulla Zeit raccontò quali erano state le loro reazioni: al di là della cortina di ferro c’era chi criticava Holocaust perché si concentrava troppo sulla vicenda degli ebrei, mentre nei campi di concentramento erano morti anche comunisti e testimoni di Geova, ma soprattutto ci si stupiva dello stupore dei vicini dell’Ovest, evidentemente non informati sui crimini di Hitler che invece erano ben conosciuti dall’altro lato del Muro – dove quindi chiaramente viveva, secondo gli intervistati dalla Zeit, la parte migliore della nazione anche dal punto di vista morale.
Fa sorridere amaramente constatare come oggi, al contrario, sia proprio l’Est l’area del Paese più a rischio di rigurgiti neonazisti: l’Est dove AfD è fortissima soprattutto nelle sue componenti più radicali, l’Est dei fatti di Chemnitz della scorsa estate. L’Est dove quest’anno si terranno delicatissime elezioni regionali, nel Brandeburgo, in Sassonia e in Turingia.
Proprio in Turingia, Land di confine con Assia e Baviera, alla guida degli alternativi c’è Björn Höcke, uno dei leader di AfD e forse il volto più noto della sua ala nazionalista. In un discorso ormai molto famoso di un paio d’anni fa, Höcke definì il Memoriale per gli ebrei assassinati d’Europa a Berlino come un “monumento alla vergogna”, e invocò un mutamento radicale nell’atteggiamento che i tedeschi hanno nei confronti del proprio passato: è necessaria, disse Höcke, un’inversione di 180 gradi della politica della memoria in Germania – proprio quella memoria che Holocaust, quarant’anni fa, contribuì a modellare.
Nel gennaio 1979 Höcke, che in realtà è nato e cresciuto a Ovest, aveva sei anni, magari era troppo piccolo per vederlo allora.
Chissà se stavolta avrà colto l’occasione per dargli un’occhiata.