La squadra di Seehofer – o della questione femminile tedesca

Basta avere una donna al comando per 13 anni perché ci sia vera parità di genere?

 

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“Squadra”, in tedesco, si dice Mannschaft: e a guardare la foto della nuova “squadra” di dirigenti del Ministero degli Interni viene da pensare che il termine, soprattutto nella sua prima parte (Mann), sia particolarmente appropriato.

Fra tutti i collaboratori che il neo-Ministro degli Interni (ancora per poco?) Horst Seehofer, leader della CSU, ha chiamato intorno a sé non c’è neanche una donna. Aspetto che naturalmente è stato subito fatto notare, e che ha suscitato numerose reazioni fra l’indignato e il sarcastico, oltre a una nutrita serie di meme e tweet da parte di alcune trasmissioni satiriche come extra 3 o lo ZDF-heute show.

 

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La parodia di extra 3

 

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… quella dello heute show

 

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… e quella di un account satirico che fa il verso al Ministero degli Interni – in cui l’unica donna è la donna delle pulizie.

 

La CSU, il partito bavarese fratello della CDU di Angela Merkel, era già stato al centro di dure polemiche quando, a fine febbraio, aveva presentato i suoi ministri per il nuovo governo. Nel corso delle trattative i bavaresi avevano infatti ottenuto tre dicasteri (Interni, Sviluppo e Cooperazione, Trasporti) e un sottosegretariato (senza portafoglio) dedicato a un tema cruciale come la digitalizzazione, tasto dolente del sistema infrastrutturale tedesco; e su quattro posti da riempire, è stata inclusa solo una donna – Dorothee Bär, a cui è toccato per l’appunto il sottosegretariato (ripetiamo: senza portafoglio), mentre i ministeri veri e propri sono andati a tre uomini: Horst Seehofer agli Interni, come detto, Gerd Müller a Sviluppo e Cooperazione, e Andreas Scheuer ai Trasporti.

 

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Da sinistra Scheuer, Müller, Bär, Seehofer

La squadra proposta da Seehofer per gli Interni, dunque, è parsa sostanzialmente una conferma del conservatorismo anche “organizzativo” della CSU, partito decisamente più “maschile” rispetto alla CDU e percepito dai tedeschi, per usare un francesismo, un po’ come un ricettacolo di bigotti.

Una delle critiche più acute, però, è venuta da una fonte inaspettata: uno stilista inglese.

Ed è una delle più acute perché non si limita a constatare l’ovvio, cioè l’assenza di diversità di genere nel gruppo di lavoro di Seehofer, ma soprattutto stimola una riflessione più generale sulla politica e sulla società tedesca, come sottolinea questo articolo apparso su Jetzt, magazine del quotidiano Süddeutsche Zeitung che ne ha raccontato la storia.

Lo stilista inglese, amico del giornalista Martin Kraetke, ha infatti pubblicato su Twitter la foto della squadra di Seehofer evidenziando tutti gli “errori” di look commessi: chi ha le maniche della giacca troppo lunghe, chi ha sbagliato l’abbinamento cromatico con la cravatta, chi ha i pantaloni troppo corti, i capelli in disordine o il taglio delle spalle fatto male.

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Naturalmente ci si potrebbe limitare a sorridere, e a considerare queste osservazioni come una divertente variazione sul tema e chiuderla lì; in realtà però si commetterebbe un errore.

Perché, come spiega l’articolo di Jetzt, con quel tweet lo stilista inglese sta facendo qualcosa di molto più profondo che sottolineare una volta di più la mancanza di diversità imperante nella CSU: sta invece giudicando una squadra tutta al maschile sulla base di criteri estetici tirati in ballo molto spesso, e senza particolare scandalo, per criticare le figure femminili che popolano il panorama politico.

Con il suo tweet, insomma, lo stilista inglese sta dicendo che sì, va bene, in questa foto ci sono solo maschi, ma teniamo presente che quando invece si tratta di donne ci si sente autorizzati a esprimere giudizi sull’aspetto esteriore che, chissà perché, con gli uomini non riteniamo rilevanti. Una forma di stereotipizzazione che sconfina nella discriminazione – perché crea un doppio standard del tutto ingiustificato.

E non sorprenda il fatto che se ne discuta anche in Germania.

Noi spesso pensiamo che questi episodi siano una prerogativa delle nostre latitudini, che “nei Paesi civili ed emancipati come quelli del nord Europa queste cose non succedono”, ma sbagliamo: anche in Germania il tema della disuguaglianza di genere è una ferita aperta, sebbene tocchi aspetti e problemi diversi rispetto a quelli che siamo abituati a considerare ad esempio nel dibattito pubblico italiano.

In confronto ad altre realtà, inclusa quella italiana, la Germania è sembrata ad esempio quasi immune dall’ondata provocata dal movimento #MeToo. L’unico caso eclatante è stato essenzialmente quello di Dieter Wedel, celebre regista di serie tv accusato di molestie sessuali da parte di alcune delle attrici con cui aveva lavorato negli anni ’80 e ’90.

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Dieter Wedel

In generale, però, è mancata una tematizzazione della questione delle molestie, e sui social media tedeschi l’hashtag #MeToo è comparso meno che altrove, forse anche perché in qualche modo ricondotto esclusivamente ad un settore ben specifico, quello del cinema e dello spettacolo, con cui l’identificazione personale può risultare poco immediata. A conferma, un sondaggio condotto dall’istituto demoscopico Forsa ha mostrato come solo l’1% delle donne intervistate ritenesse il movimento generato da #MeToo qualcosa di rilevante nella propria vita.

A posto così, dunque?

Tutt’altro: come ha commentato Manfred Güllner, fondatore e direttore di Forsa, “il dibattito su #MeToo non ha avuto molta fortuna in Germania perché le donne, qui, hanno preoccupazioni ben più pressanti”. Lo stesso sondaggio ha infatti rivelato un dato davvero sconvolgente: il 74% delle donne intervistate ha dichiarato di aver subito molestie di natura sessuale, da sguardi e allusioni pesanti per strada a veri e propri palpeggiamenti e assalti, da parte di sconosciuti, colleghi, amici. Si tratta, praticamente, di tre donne su quattro. Anche altri sondaggi dipingono scenari decisamente angoscianti: ad esempio, secondo i dati riportati da YouGov il 43% delle donne intervistate è stato vittima di molestie ed abusi, e una ricerca condotta nel 2015 dallo Antidiskriminierungsstelle des Bundes (ADS), l’agenzia federale antidiscriminazioni, ha riscontrato che ben il 49% delle donne ha subito almeno una volta molestie o aggressioni a sfondo sessuale nell’ambiente lavorativo.

Numeri spaventosi, che indicano piuttosto chiaramente come il problema ci sia, e sia molto grosso.

E per comprenderne la dimensione basta tenere a mente una data: il 15 maggio 1997.

È in quel giorno, infatti, che i deputati tedeschi riuniti nel Bundestag approvarono la modifica del paragrafo 177 dello Strafgesetzbuch, il codice penale, rendendo un crimine perseguibile penalmente anche lo stupro consumato all’interno del matrimonio. È da poco più di vent’anni, dunque, che in Germania violentare il proprio coniuge è un reato.

Ma si è trattato solo di un primo passo: il paragrafo 177 è rimasto al centro di numerose polemiche.

La formulazione del paragrafo, infatti, fino al 2016 utilizzava come criterio determinante per individuare la violenza non l’assenza di consenso da parte della vittima, ma la presenza di resistenza attiva: secondo la legge tedesca, cioè, perché di stupro si potesse parlare – e dunque potesse essere avviato un procedimento e si potesse in caso giungere ad una condanna – non bastava che la vittima avesse inequivocabilmente espresso la propria contrarietà, ma doveva dimostrare di aver reagito fisicamente all’assalto.

Una prospettiva duramente criticata da numerose associazioni femministe, proprio perché incentrata sulle azioni della vittima trasformata così di fatto in corresponsabile della stessa violenza subita, colpevole di “non aver reagito”. Per fare un esempio e capire meglio, secondo la legge tedesca l’agghiacciante esperienza raccontata da Alice Sebold nel suo libro Lucky – di cui potete leggere un estratto qui – non sarebbe stata classificabile come reato.

La conseguenza, come prevedibile, era un numero estremamente basso di violenze denunciate: e la conferma ufficiale si è avuta nel 2014, quando un report pubblicato dal Bundesverband Frauenberatungsstellen und Frauennotrufe (BFF, “Associazione federale dei consultori e dei centri di emergenza per le donne”) ha evidenziato 107 casi di violenza sessuale non denunciati o non perseguiti proprio a causa della formulazione del paragrafo. Lo stupro, dunque, veniva per certi versi ignorato sistematicamente – da intendersi in duplice senso: costantemente, e perché il sistema stesso era strutturato in maniera da disincentivare la denuncia e far scomparire il reato.

Le cose, fortunatamente, sono cambiate. Nel luglio 2016, e secondo molti sull’onda dei fatti del Capodanno di Colonia, il Bundestag ha approvato una ulteriore riforma – dopo quella del 1997 – del paragrafo 177 del codice penale, basata su un punto essenziale: Nein heißt Nein, “no significa no”. Il criterio per determinare la violenza (palpeggiamenti inclusi) è ora la presenza di una “chiara volontà contraria”.

Un altro passo in avanti, insomma, per quanto secondo alcuni non privo di qualche controindicazione: però, appunto, compiuto neanche due anni fa.

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Il testo del nuovo paragrafo 177 del codice penale – qui il testo in inglese

C’è un altro paragrafo del codice, tuttavia, che in questi mesi è tornato al centro del dibattito: il 219a. Quello che regola le disposizioni relative alle informazioni sull’interruzione di gravidanza.

Il paragrafo, risalente al 1933 – dunque all’anno 1 del regime nazista – proibisce la diffusione pubblica di materiale informativo sull’interruzione di gravidanza “per ottenere un vantaggio economico o in maniera particolarmente inappropriata”, pena una sanzione pecuniaria e il carcere fino a due anni. In Germania, però, l’aborto è legale, seppur regolato in modo molto stringente: si crea così una specie di cortocircuito legislativo, allora, perché i medici non possono “pubblicizzare”, ad esempio su un proprio sito, una prestazione che sono tuttavia assolutamente legittimati a offrire.

E proprio in questo cortocircuito legislativo è incappata la ginecologa Kristina Hänel, che aveva reso disponibile sul suo sito un PDF informativo ed è stata dunque multata per violazione del paragrafo 219a, per un totale di 6000 euro. Solo che Hänel si è rifiutata di pagare, e ha scelto di ricorrere in appello contro la sentenza di condanna emessa dal tribunale di Giessen, in Assia. Inoltre, ha lanciato una petizione su change.org per l’abolizione del 219a, che “impedisce il diritto delle donne a informazioni obiettive” e toglie loro la possibilità di scegliere, consegnandola di fatto esclusivamente nelle mani dei consultori che sono gli unici soggetti autorizzati a fornire consulenze e assistenza.

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L’appello finale della petizione lanciata da Hänel: “Io sostengo il diritto delle donne a informarsi su internet sulle prestazioni offerte dai medici in materia di interruzione di gravidanza. Il diritto all’informazione è un diritto umano. Il paragrafo 219a impedisce questo diritto.”

La petizione ha superato le 150.000 sottoscrizioni, e ha riacceso la luce del dibattito pubblico sul tema, generando numerose discussioni e interviste sui media e cortei di sostegno nelle strade – tanto che anche il nuovo Ministro della Sanità, Jens Spahn, si è detto favorevole a trovare un punto d’incontro che, pur mantenendo le linee principali del divieto, renda più semplice la diffusione di informazioni.

Non è detto però che si riuscirà a tirarne fuori qualcosa: all’interno del Bundestag il blocco conservatore – CDU/CSU + AfD – è unito a difesa del 219a, mentre i partiti liberali sono divisi sulla strategia da seguire. La SPD intende cercare un compromesso con Merkel e i suoi, anche perché governando insieme non è che ci si possa proprio mettere a litigare, mentre ad esempio i Grünen e la Linke spingono per una soluzione più radicale, che magari conduca allo stralcio del paragrafo.

Certo, in tutto questo va comunque considerato che la Germania è retta da 13 anni da una donna.

Nella classifica del Global Gender Gap Index, l’insieme di indicatori sviluppato dal World Economic Forum per misurare l’uguaglianza di genere, nel 2017 la Germania ha raggiunto il dodicesimo posto su 144 Paesi in totale: ottimo risultato che migliora ulteriormente se si considera la categoria Political empowerment, dove si arriva alla decima posizione. E tutti i partiti, più o meno, hanno ormai delle donne ai vertici: Angela Merkel guida la CDU da tempo immemorabile, naturalmente, ma anche la SPD ha adesso una donna come leader. Ad aprile scorso, infatti, i socialdemocratici hanno eletto alla Presidenza Andrea Nahles, ex-Ministro del Lavoro nel precedente governo e capogruppo del partito al Bundestag.

E qualcosa di simile si può dire anche degli altri. I Grünen ormai per tradizione hanno al vertice un tandem uomo/donna, al momento composto da Robert Habeck e Annalena Baerbock; e lo stesso vale per la Linke, guidata da Bernd Riexinger e Katja Kipping ma la cui figura più riconoscibile è sempre una donna, la pasionaria Sahra Wagenknecht – candidata alla Cancelleria a settembre e moglie del fondatore, Oskar Lafontaine. Persino AfD era guidata fino a un anno fa da una donna, Frauke Petry; e se i due leader attuali sono uomini (Jörg Meuthen e Alexander Gauland) uno degli esponenti di punta è Alice Weidel, candidata Cancelliera e capogruppo al Bundestag.

Eppure, anche in questo ambito le cose non sono rosee come appaiono a prima vista, e il diavolo si nasconde nei dettagli.

Ad una presenza molto evidente in cima non si accompagna una analoga partecipazione ai livelli medi, quelli diciamo così della truppa: sempre secondo il Global Gender Gap Index del 2017, se consideriamo l’indicatore Legislators, senior officials and managers la Germania scivola al 74esimo posto – poco sopra l’Italia, che a questa voce è 81esima ma in totale 82esima. Indicativo anche il dato sulla percentuale di donne sindaco: secondo un report della Heinrich Böll Stiftung uscito a maggio 2017 si tratta solo dell’8% del totale – in Italia, invece, siamo oltre il 13%.

Anche nel mondo del lavoro le cose non vanno benissimo.

La presenza femminile ai livelli di top management è intorno al 28% per le aziende con meno di 10 dipendenti, ma scende al 13% per quelle con più di 500 dipendenti – le più grandi e più prestigiose. Il mondo imprenditoriale si è sempre mostrato molto bendisposto verso cambiamenti che aumentassero la quota femminile, ma alle parole sono di rado seguiti fatti: e se dal 2016 le aziende tedesche più importanti devono per legge avere almeno il 30% di donne nei loro supervisory board (organismi di controllo), nulla del genere è stato fatto per gli executive board, là dove cioè si concentra davvero il potere decisionale. La percentuale di donne nei consigli di amministrazione, infatti, rimane molto bassa: solo il 6,5% – tanto che Katarina Barley, ex-Ministro SPD per la Famiglia e ora responsabile della Giustizia nel nuovo governo, aveva ipotizzato nell’agosto 2017 di introdurre anche a questo riguardo un sistema di quote obbligatorie.

Uno dei temi su cui l’anno scorso si è concentrata la campagna elettorale, poi, è stato il gender pay gap, cioè la differenza fra il salario di un uomo e quello di una donna a parità di ruolo e di mansione: questione particolarmente spinosa in un Paese in cui le donne guadagnano in media oltre il 15% in meno rispetto agli uomini, a fronte di una media OCSE del 14,1%.

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La colonna nera è la media dei Paesi OCSE, quella blu è la Germania. Sorprendentemente l’Italia – colonna rossa – è messa molto meglio, con un gap del 5,6%.

 

La via tedesca all’uguaglianza di genere è un cammino lungo, tortuoso e accidentato, come per ogni società complessa. Un cammino che in certi ambiti ha quasi raggiunto la destinazione, ma in altri è invece ancora poco oltre il punto di partenza.

Una cosa però il caso tedesco la mostra piuttosto chiaramente: avere una donna alla guida del Paese per più di dieci anni aiuta, certo, ma non basta.

 

Edoardo Toniolatti

@AddoloratoIniet

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