L’uomo dei passaporti

La storia di Harald Jäger, l’impiegato che aprì il Muro di Berlino

Se Günther Schabowski diede inavvertitamente il via alla caduta del Muro di Berlino, e David Hasselhoff ne cantò la colonna sonora ufficiosa, c’è un terzo personaggio il cui destino è inestricabilmente legato a quegli incredibili giorni del novembre 1989, e la cui storia val la pena di essere raccontata.

Se ci voleva la voce di una stella della tv americana per ispirare i tedeschi dell’Est a cercare la libertà, e la goffaggine di un funzionario del regime per annunciare formalmente la fine della Cortina di Ferro, chi meglio di una guardia di confine poteva rappresentare la mano che fisicamente alzò le sbarre e aprì i cancelli?

Nato nel 1943, figlio di un poliziotto di frontiera, ad appena diciotto anni Harald Jäger si unisce come volontario alla Deutsche Grenzpolizei, la formazione paramilitare deputata nella DDR al controllo delle zone di confine – nel 1961, proprio quando viene eretto il Muro di Berlino. Tre anni dopo entra nella Stasi, e inizia a fare carriera nella PKE, la Passkontrolleinheit (l’unità per il controllo dei passaporti), fino a raggiungere il grado di Oberstleutnant, che grossomodo corrisponde al nostro tenente colonnello. È un militare, dunque, ma il suo sarà più che altro un lavoro da scrivania.

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Harald Jäger in uniforme, a 21 anni

Per 25 anni presta servizio al controllo dei passaporti in una delle zone di transito fra Berlino Est e Berlino Ovest, quella nei pressi della Bornholmer Strasse. Situato nel nord della città, fra i quartieri di Prenzlauer Berg (a Est) e  Wedding (a Ovest), è un tratto di frontiera non semplice da gestire: la postazione della PKE è robusta e fortificata, ma si trova vicino alla Schönhauser Allee, una grande strada che va verso il centro città ed è ben servita dai mezzi pubblici. Il checkpoint è quindi facilmente raggiungibile; per di più, Prenzlauer Berg è una zona nota al regime come covo di oppositori – ci vivono molte “forze ostili”.

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Un’immagine dall’alto del checkpoint a Bornholmer Strasse (Fonte: stasi-mediathek.de)

La mattina del 9 novembre 1989 Jäger attacca alle 8, per un turno della durata di 24 ore ininterrotte. Non è una circostanza così rara, ma certo non fa piacere; in più, quel giorno il suo superiore a Bornholmer Strasse, Werner Bachmann, non c’è, quindi la responsabilità del checkpoint e il comando delle guardie di confine saranno tutti sulle sue spalle. Come se non bastasse, anche la sua vita privata lo sta mettendo sotto pressione. A causa di alcuni sintomi si è sottoposto a degli esami, e i risultati devono arrivare il giorno dopo: potrebbe trattarsi di cancro. Non è difficile immaginare con che spirito sia andato al lavoro quella mattina.

La giornata scorre tutto sommato tranquilla fino all’ora di cena. Mentre mangia qualcosa insieme a un paio dei suoi uomini, Jäger segue in tv la conferenza stampa di Günther Schaboswki – quella in cui il funzionario della SED annuncia per errore che il Muro, sostanzialmente, non c’è più. La sua reazione non è certo di entusiasmo: convinto che il Muro sia una misura necessaria per scongiurare una guerra fra Est e Ovest e mantenere così la pace, l’uomo dei passaporti è convinto che Schabowski non sappia cosa sta dicendo (come sappiamo, su questo non sbaglia), e non abbia idea delle conseguenze pratiche del suo annuncio.

La prima cosa che fa, allora, è chiamare immediatamente il comandante del quartier generale della Stasi nella Schneller Strasse, il colonnello Rudi Ziegenhorn, per capire cosa sta succedendo e chiedere istruzioni. Istruzioni che tuttavia non arrivano, nel senso che l’ufficiale conferma che non c’è nulla di nuovo e invita Jäger a procedere col lavoro ordinario come sempre. Jäger però non si fida, e si mette in contatto con i soldati di guardia all’accesso orientale del checkpoint, per sapere se va tutto bene. Effettivamente, già pochi minuti dopo le sette un gruppetto di persone, una ventina al massimo, si è presentato al posto di blocco e dice di voler passare.

Jäger non può che chiamare di nuovo Ziegenhorn, perché evidentemente non è vero che non sta succedendo nulla. Il colonnello della Stasi allora gli ordina di trattenere i facinorosi per un po’ e poi rispedirli indietro, nella speranza che il gruppo si disperda. Il problema però è che intanto non ci sono più solo una ventina di persone ai cancelli, ma quasi un centinaio. La notizia dell’annuncio di Schabowski, infatti, si è sparsa in fretta, e in molti hanno chiamato le stazioni di polizia per sapere se è vero quello che hanno sentito in tv, con gli agenti e gli ufficiali che al telefono non sanno cosa rispondere.

Un paio d’ore dopo la conferenza stampa di Schabowski, davanti al checkpoint di Bornholmer Strasse c’è ormai quasi un migliaio di cittadini dell’Est, che chiedono a gran voce di poter passare dall’altra parte. La situazione è sempre più tesa, e Jäger teme davvero che da un momento all’altro la folla possa dare l’assalto al posto di blocco; tuttavia cerca di mantenere la calma, e ricorda ai suoi uomini di fare lo stesso – e di tenere le pistole ben serrate nelle fondine. L’unica altra cosa che può fare è continuare a tempestare Ziegenhorn di telefonate, vista la velocità con cui stanno precipitando le cose. Esasperato, il colonnello gli offre di unirsi a una teleconferenza con l’alto comando della Stasi, a patto che stia zitto e non faccia capire a nessuno che sta partecipando anche lui. Jäger accetta.

Al telefono con i suoi superiori, Ziegenhorn traccia un riassunto sommario della situazione a Bornholmer Strasse, quando viene interrotto da un alto ufficiale, Gerhard Neiber, che gli chiede a bruciapelo: questo Jäger è in grado di darci un rapporto realistico della situazione, o è semplicemente un codardo?

Al lavoro dalle otto di mattina, con una situazione potenzialmente esplosiva da gestire e con il retropensiero della diagnosi che dovrà ritirare la mattina seguente, Jäger decide che ne ha avuto abbastanza. Urla “Se non mi credete, ascoltate!”, e sporge il ricevitore fuori della finestra, dove migliaia di persone ormai rumoreggiano insistentemente, perché dall’altro capo del filo si rendano conto di cosa sta succedendo. Poi mette giù. Capisce che dovrà sbrigarsela da solo.

Riceve un’ultima chiamata da Ziegenhorn, che lo mette al corrente della soluzione temporanea elaborata dal comando: individuare i manifestanti più aggressivi e farli passare. Durante il controllo dei passaporti, però, il timbro di approvazione dovrà essere posto in modo inusuale, appena di fianco alla foto o direttamente sopra. In questo modo, il passaporto verrà invalidato: quando proveranno a tornare indietro sarà così possibile riconoscerli e vietare loro l’ingresso nella DDR. Una mossa che dovrebbe, nelle intenzioni della Stasi, sortire un duplice effetto: liberarsi dei contestatori più visibili una volta per tutte, e far disperdere la folla, privata dei suoi “leader”. Jäger non è convinto, per nulla, ma istruisce i suoi uomini a procedere come gli è stato comunicato.

Ben presto, però, diventa chiaro come l’uomo dei passaporti avesse ragione. La folla capisce in fretta che il modo più rapido per passare dall’altra parte è alzare la voce, e quindi il numero dei facinorosi, invece di diminuire, aumenta esponenzialmente. La seconda parte del piano della Stasi, dunque, si dimostra rapidamente un fallimento. 

Anche la prima parte rivela presto delle tragiche falle. Fra quelli che erano stati fatti passare, infatti, c’erano coppie che avevano sentito la notizia alla radio o alla tv e avevano deciso di vedere se era tutto vero, ma senza alcuna intenzione di trasferirsi a Ovest: gente che aveva solo voglia di fare una passeggiata dall’altra parte, e magari aveva lasciato i figli a letto e contava di tornare a casa dopo un paio d’ore. Quando provano a tornare indietro, però, scoprono con sgomento che i loro passaporti non sono più validi: sostanzialmente sono stati espulsi dalla DDR. Le reazioni sono molto forti. La tensione ormai è ai livelli di guardia da entrambi i lati del checkpoint: i soldati di guardia chiamano Jäger, perché venga a gestire personalmente la situazione, e naturalmente l’unica cosa sensata è far rientrare i disperati genitori, come infatti avviene.

La situazione sta ormai precipitando totalmente fuori controllo. Da una parte migliaia di persone che urlano di aprire i cancelli verso Ovest, dall’altra chi vuole rientrare, e come se non bastasse sono arrivate anche le telecamere di alcuni media occidentali, come ad esempio quelle della Spiegel-TV

Stanco e provato, lasciato solo da tutti i suoi superiori con un enorme peso sulle spalle, verso le undici e mezza Jäger decide di fare un’ultima telefonata a Ziegenhorn per informarlo della sua decisione. Poi dà ordine a due dei suoi uomini, Helmut Stöss e Lutz Wasnick, di aprire i cancelli, un’operazione che deve essere compiuta manualmente

Non ci saranno più controlli, tutti potranno passare da una parte all’altra. Il Muro si è aperto.

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La folla intorno al checkpoint di Bornholmer Strasse, la sera del 9 novembre 1989 (Foto: EPD)

Fra le persone che passano dai cancelli finalmente aperti di Bornholmer Strasse c’è anche una ricercatrice che lavora al Zentralinstitut für Physikalische Chemie, l’Istituto Centrale per la Chimica fisica dell’Accademia delle Scienze di Berlino Est. Lei però non è di Berlino: è nata ad Amburgo ma è cresciuta nella DDR, in Brandeburgo, dove il padre faceva il pastore luterano. Quella sera del 9 novembre 1989 si avventura a Ovest per un po’, chiama al telefono una zia per dirle che ha passato il confine, e poi torna a casa. In quel momento ancora non lo sa, ma ha davanti a sé una carriera estremamente brillante – non nella scienza, però, ma in politica, tanto che verrà presto notata da Helmut Kohl. E bionda e abilissima, e secondo me avete già capito chi è.

Ma questa è un’altra storia.

 

Edoardo Toniolatti

2 pensieri riguardo “L’uomo dei passaporti”

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