I sistemi elettorali sono un po’ come la nazionale di calcio: 60 milioni di commissari tecnici di qua, 60 milioni di modelli elettorali da ciascuno variamente preferiti di là.
Che ognuno abbia la sua idea è in questa materia tutt’altro che patologico, perché questa varietà ha a che fare con il nucleo più intimo di un sistema elettorale, cioè la sua funzione. Se nelle democrazie ciascun parlamentare è chiamato a rappresentare, anche singolarmente preso, non solo i suoi concreti elettori, ma l’intero Paese, allora la formula che traduce in seggi la pluralità di opinioni e convincimenti politici nella società è fondamentale per far sì che il Parlamento nel suo insieme sia uno specchio fedele del popolo elettore di cui è l’espressione. E visto che ci sono, tendenzialmente, tante opinioni politiche quante persone, è logico che ciascuno si auspichi un sistema che riesca a rappresentarlo con successo. Sessanta milioni di sistemi elettorali preferiti, appunto.
Questo discorso vale, ed è ovvio, anche per la Germania, i cui abitanti sono però 83 milioni e che finora era stata caratterizzata a livello nazionale da un sistema elettorale rimasto sostanzialmente invariato dal 1949, con una stabilità invidiata. Fino ad una riforma approvata in queste settimane.

Facciamo però un passo indietro. Il sistema in vigore fino ad ora si lascia spiegare in modo non troppo difficile. Fra tre minuti di lettura lo avrete capito.
Ciascun elettore riceveva finora una scheda con due voti, fra loro indipendenti. Col primo voto poteva scegliere un candidato di collegio elettorale, col secondo voto un partito nel suo complesso attraverso liste. Il candidato che in un collegio – il primo voto! – prendeva anche solo un voto più degli altri era eletto al Bundestag, il Parlamento federale. Decisivo per la composizione di quest’ultimo era però il secondo voto, con un principio pienamente proporzionale. L’elemento di complicazione – dibattuto da anni e che ha portato alla riforma odierna – era la possibilità che un partito vincesse più collegi dei seggi che gli sarebbero spettati in proporzione al totale: in questo caso i collegi in sovrappiù non venivano toccati poiché vinti a tutti gli effetti, ma agli altri partiti venivano assegnati tanti ulteriori seggi, quanti erano necessari perché la proporzione generale fosse rispettata.
Altri tre dettagli importanti. Il primo è la soglia di sbarramento: 5% nazionale, altrimenti nessun accesso al Bundestag. Il secondo è un’eccezione rilevantissima alla soglia di sbarramento: i candidati vittoriosi in un collegio erano eletti in tutti i casi, anche se il proprio partito nel complesso rimaneva sotto il 5%, e se un partito riusciva a vincere in almeno tre collegi territoriali veniva “liberato” dalla soglia di sbarramento e partecipava al riparto di seggi (anche, mettiamo, con il 4,9%). Una misura, quest’ultima, chiaramente pensata per distinguere fra partiti “piccoli” e partiti regionali o comunque con un consenso territorialmente concentrato. Il terzo ed ultimo dettaglio importate è il ruolo dei e nei partiti in Germania: i candidati territoriali di collegio devono essere – per legge! – scelti dagli iscritti in loco del partito, senza che Berlino abbia voce in capitolo, e non sono ammesse né coalizioni, né listoni, né altre forme di collegamento. Ciascun partito compete per sé ed al proprio interno è obbligato a garantire democrazia interna.
Il lettore potrà ora magari pensare che questo sia il migliore dei mondi possibili. Non è esattamente così. Perché il meccanismo dei seggi “in sovrappiù” e di quelli “ulteriori” per compensarli porta – è logico – ad una crescita del numero complessivo di parlamentari. Più i partiti che un tempo si sarebbero detti di massa calano nei consensi complessivi, rimanendo però relativamente i primi nei vari territori, più il numero dei seggi “in sovrappiù” aumenta, portando con sé un aumento dei seggi assegnati ulteriormente “in compensazione” e quindi ad un ingrandimento del Parlamento. E che i nostri siano tempi in cui la riduzione, e non l’aumento, del numero di parlamentari va un po’ per la maggiore lo sappiamo tutti. Così il bel sistema tedesco è finito sotto pressione dell’opinione pubblica e nei partiti, aprendo la gara ad una riforma che potesse fregiarsi del merito di aver finalmente ridotto il numero dei parlamentari. Storia già sentita in Italia, no?
Dopo un decennio buono di riforme elettorali discusse, fallite di fronte ad un blocco pressoché sordo delle democristiane CDU e CSU, l’attuale coalizione di governo ha deciso di fare sul serio e, dopo un iter parlamentare i cui dettagli qui possiamo risparmiarci, ha preso in mano l’accetta per sfrondare un Bundestag nel frattempo arrivato a 736 seggi anziché i 598 teoricamente previsti. L’idea di base era onesta e semplice: eliminare tanto i seggi “in sovrappiù” quanto quelli di compensazione, portando così il Parlamento federale ad una grandezza fissa ed un ripartito equamente proporzionato. Un proposito benemerito, che però alla prova dei fatti ha svelato un atteggiamento tutt’altro che imparziale.
Primo, perché la coalizione di governo, la Ampel, ha deciso di fare da sola, rompendo una tradizione consolidata in Germania, ovvero che cambiamenti “in solitaria” delle regole del gioco non s’hanno da fare. I possibili partner a cui la coalizione avrebbe potuto rivolgersi erano tre: l’Unione democristiana di CDU e CSU, sulla cui seria intenzione a collaborare si potrebbe discutere, l’estrema destra etnonazionalista di AfD, con la quale è davvero meglio non avere a che fare, e in ultimo la Sinistra (Linke), che era disponibile ad una collaborazione costruttiva, ma è stata semplicemente ignorata. La Ampel non ha dunque, pur potendo, collaborato con nessuno, e questo stabilisce un precedente pericoloso.
Il secondo problema è che la riforma non è neutrale, ma al contrario rischia di espellere dalla rappresentanza parlamentare due partiti su sette attualmente presenti nel Bundestag, e questi sono entrambi forze d’opposizione. Ora infatti verrà cancellata quella eccezione territoriale alla soglia di sbarramento al 5%, così che un partito che – per avventura – arrivi primo anche in 45 collegi, potrebbe non vedersene assegnato in realtà nemmeno uno. Questa cancellazione forgia in forma giuridica una valutazione di preferenza per partiti medio-piccoli ovunque, ma “nazionali”, rispetto a partiti forti in un territorio determinato e “locali”. Così a vedersi minacciati nella loro stessa sopravvivenza sono la Sinistra (Linke), da sempre molto più radicata nell’Est già comunista, ed il partitone democristiano bavarese CSU, che, come dice la parola, esiste solo in Baviera. Nel 2021 la Linke mancò d’un soffio la soglia del 5%, entrando però comunque in Parlamento per aver vinto sufficienti collegi ad Est del Paese, mentre la CSU fece man bassa di collegi in Baviera – vincendone 45 su 46 – ma il suo risultato rapportato alla Germania intera è stato di un risicato 5,17%. Molto, molto vicino al fatidico 5.
La somma di questi due aspetti problematici dovrebbe suonare familiare ad orecchie italiane. Una volta che si comincia a fare riforme elettorali a colpi di maggioranza che puniscono solo l’opposizione e premiano chi le fa si rischia d’entrare in una serie storica di riforme fatte male e dettate dall’interesse contingente, dalla quale uscire è ogni volta sempre più complicato. Dare un’occhiata al numero di leggi elettorali fatte in Italia dal 2005 in poi per credere.
Il terzo ed ultimo problema riguarda il rapporto fra base e centro dei partiti ed anche fra elettore singolo e partiti nel loro complesso. Perché i due voti, entrambi di pari valore, davano fino ad oggi all’elettore un potere rilevante: quello di “punire” il partito che, pur forse da votarsi nel complesso, nel territorio concreto sceglieva un candidato sgradito, e contemporaneamente di “premiare” singoli candidati, magari in controtendenza dal partito in sé. Questo potere dell’elettore ha avuto negli anni un notevole effetto disciplinante su partiti e candidature, riducendo candidati “catapultati” e sconosciuti e premiando invece quei parlamentari in grado di distinguersi a titolo personale e nel rapporto col proprio collegio. Si capisce da sé che questo potere, dell’elettore prima che dei parlamentari singoli, non fosse particolarmente simpatico per le centrali di forze politiche (in Italia si direbbe “le segreterie”) più interessate ad avere mano libera nella scelta di chi mandare (o non mandare) in Parlamento.
Ora con la riforma di questi giorni il voto ai candidati di collegio non viene cancellato, ma la sua forza, la sua capacità incisiva viene intaccata in radice: saranno eletti solo i candidati di collegio che corrispondono alla quota proporzionale, non uno di più. Chi vince “meglio” passa, chi vince “peggio” rischia seriamente di rimanere fuori. E per i partiti che non superano il 5% significa che i candidati che anche vincessero un collegio non verrebbero comunque più presi in considerazione in alcun modo. Così sorge spontanea la domanda: perché dovrei, da elettore, votare un candidato di collegio magari bravissimo e piuttosto indipendente, se il suo partito nazionale è in odore di non superare la soglia di sbarramento? E perché, da partito, dovrei impegnarmi a scegliere, in particolare nei collegi più incerti, persone combattive, “presentabili” e che conquistano ogni voto, se tanto quello che fa testo alla fine è la media ed i collegi con risultati meno netti comunque rischiano di rimanere fuori?
Il sistema tedesco cambia dunque. In peggio, ci sentiamo di dire. Al di là delle sentenze della rispettata e temuta Corte costituzionale federale, che aspettiamo e che prevedere sarebbe un azzardo, rimangono sul tavolo alcuni aspetti critici “di sistema” che l’osservatore appassionato della democrazia non può tacere.
In primo luogo l’evidente disprezzo per forze politiche regionalmente o comunque territorialmente concentrate fa il paio con una sottolineatura del valore e dell’importanza del livello nazionale, il solo che sarebbe davvero in grado di garantire rappresentanza. Nel dibattito del Bundestag, nei comunicati dei partiti e sui social quest’ultimo aspetto, “la dimensione nazionale!”, è stato ripetuto dozzine e dozzine di volte. Questo approccio non è privo di problematicità. Il riacquisto d’importanza della “Nazione” nel dibattito europeo è un dato di fatto, sancito fra le varie dalla chiusura dei confini – rigorosamente nazionali! – nei lunghi mesi della pandemia. Per piccola che possa sembrare, la cancellazione della clausola elettorale di salvaguardia per i partiti regionali tedeschi è un tassello che si intona senza forzatura alcuna in un panorama di revival della Nazione. Anche ed ovviamente a danno dello spirito europeo. Sia consentita una domanda: se l’idea è che forze politiche regionali non siano legittimate a sedere nel Parlamento del proprio Paese, allora cosa ne facciamo della tanto invocata “Europa delle Regioni” come contrappunto allo strapotere delle capitali?
In secundis. Un Paese che comincia a fare riforme elettorali a colpi di maggioranza che riducono via via gli spazi di scelta del singolo elettore lo conosciamo già: l’Italia. Anche l’argomento, ripetuto spesso in Germania in queste settimane, secondo cui all’elettore medio non interessi il candidato singolo, ché tanto nemmeno lo conosce, e tutto quello che conta è una crocetta per un partito, non è certo nuovo per italiche orecchie. Da italiani sappiamo che a patirne è la qualità della democrazia. E ciò non solo perché chi di riforma elettorale fatta a maggioranza e per tornaconto ferisce, di altrettanta riforma prima o poi perisce. Ma anche perché ridurre gli spazi obiettivi di scelta riduce a sua volta l’interesse dell’elettore, lo atrofizza o lo aizza, alla lunga, ad inveire contro un sistema del quale ha l’impressione, fondata o meno che sia, di non poter cambiare nulla.
Tutto questo, ed in particolare l’aver adottato schemi di comportamento politico così tipici dello scenario italiano contemporaneo, la Germania poteva risparmiarselo. È stato deciso diversamente. Peccato! Che poi quassù si dice “Schade!”, cioè “danno”. E tutto ciò un danno effettivamente lo è.