Di tutti i dischi che ogni giorno definiamo come pietre miliari, angolari, sono in realtà pochi quelli il cui influsso è stato davvero devastante. Al punto tale da sbriciolare ogni certezza e codice ad esso anteriori, e al contempo così facili da propagare facendone portatori sani di un’evoluzione debordante e incontrollabile, capace di infiltrarsi ovunque, rendendo incalcolabile la portata del suo raggio di azione.
Sebbene i Kraftwerk abbiano un catalogo del quale identificare gli episodi più pregiati è un’impresa titanica, è soltanto “Autobahn” il loro disco ascrivibile con totale certezza alla categoria descritta pocanzi. Di certo lo tallonano altri due capolavori, “Trans Europa Express” e “Die Mensch-Maschine”, ancora più gelidi e concettuali e forse per questo preferiti da molta critica. O addirittura “Computerwelt”, le cui seppur meccaniche rotondità pop avrebbero permesso al virus elettronico di espandere ulteriormente le sue metastasi. Nulla comunque a confronto della prima ondata evolutiva emanata dalla centrale elettrica di Dusseldorf, quella per l’appunto irradiata da “Autobahn”.


Quello che a tutti gli effetti è il disco che ha cambiato il corso della musica popolare, inoculando in essa il verbo elettronico, è anche un disco tremendamente popolare, di quelli che in Germania ne sono piene cassapanche e soffitte. Proprio nel 2019, anno in cui il celebre magazine musicale tedesco compie 50 anni, Musikexpress ha posizionato “Autobahn” in cima alla sua classifica dei migliori album tedeschi della storia (e se lo dicono loro c’è da fidarsi), mettendone per iscritto, storificandone, allo stesso tempo l’importanza e la germanicità. Se da una parte è certo che dopo “Autobahn” la storia della musica pop globale non sarebbe stata più la stessa, è ugualmente vero che il disco non sarebbe mai potuto nascere al di fuori dei confini tedeschi.

Inserire i Kraftwerk nel filone kraut rock sarebbe una forzatura arbitraria e musicalmente fuorviante. Tuttavia, per meglio comprendere la profonda germanità dei Kraftwerk, è necessaria una digressione a riguardo. I due fondatori dei Kraftwerk Ralf Hütter e Florian Schneider da Düsseldorf erano due studenti di musica, come molti membri dei vari Can, Faust, Neu! (altra storica formazione di Düsseldorf, le cui sorti si sarebbero sempre intersecate con quelle dei Kraftwerk, con i quali avrebbe condiviso e scambiato membri) etc etc, provenivano dallo stesso giro accademico e gravitavano intorno all’avanguardia di Karlheinz Stockhausen e con i kraut rocker condividevano la missione: ricodificare la musica rock trascendendo le sue radici blues, preferendo a queste un bagaglio costituito da musica colta e avanguardie europee. Uno scopo che avrebbe prodotto visioni molto differenti, ma tutte associabili l’una all’altra e in alcuni aspetti interscambiabili. Con una missione così vaga e precisa insieme, il kraut rock (così nominato da una critica anglofona burlona e mai così in errore) è dunque solo il tronco di un albero di generi ben più folto, che ramifica verso il motorik e la kosmische musik, così come verso l’antimateria musicale dei Faust e i sintetizzatori scintillanti di capitan Hutter.
Tutti i figli e gli associati del kraut rock affondano le loro radici nell’humus culturale e avanguardistico europeo, con una predilezione ovviamente per il suono tedesco, ma molti di questi lo hanno fatto per poi impiantarsi altre dimensioni, buchi neri di rumore, galassie lontane, mondi cibernetici. Solo i Kraftwerk, perlomeno fino ai tempi di “Autobahn”, possono però essere definiti come il suono della Germania di quegli anni.

Perfezionato il loro suono grazie all’introduzione di nuovi strumenti quali il minimoog e l’ARP Odyssey, Hütter, Schneider e i nuovi compagni Roder e Flür approcciarono le registrazioni di “Autobahn” con la pretesa di inscatolare in un disco l’alienazione di una città industriale come Düsseldorf. La capitale della Renania Settentrionale-Vestfalia, con i suoi enormi e grigi complessi industriali metallurgici, è base fondamentale del DNA elettronico dei Kraftwerk quanto lo sono le innovazioni tecnologiche in fatto di tastiere che ne hanno reso possibile il sound gelido e metronomico.
Motori che si accendono, sbuffi di vapore, sferragliare di pistoni, interferenze radiofoniche e altri segni di una vita regimentata e segmentata dalla presenza industriale in un polo come quello della Vestfalia degli anni ’70 intervallano i lunghi movimenti di “Autobahn”, costituendone parte del fascino e condizione indispensabile. La lunga suite che intitola l’opera è ispirata ai viaggi in automobile per raggiungere il proprio posto di lavoro, sulle proverbialmente ampie e geometriche autostrade tedesche, con i sintetizzatori che ne riproducono le velocità delle varie corsie e l’andamento parallelo delle loro geometrie. La prima parte di “Kometenmelodie” e la cupissima “Mitternacht” sono due momenti in parte dronici densi e opprimenti, pregnante ritratto del peso intangibile ma greve che grava sull’uomo ridotto a ingranaggio. Suona più lieta e luminosa “Morgenspaziergang”, che in realtà rimarca come in un epoca industriale anche i momenti dedicati a se stessi siano scanditi dalla catena produttiva, effettuati meccanicamente, alla maniera in cui si timbra il cartellino all’inizio e alla fine di un turno.
Le smisurate e parallele geometrie delle Autobahn tedesche ci forniscono un’opportunità ghiotta per chiudere un cerchio e questo breve e doveroso articolo celebrativo ritornando da dove siamo partiti, all’importanza globale di “Autobahn” per la storia della musica.
Immaginate la musica pop, quella rock e tutte le loro declinazioni come una grande cartina geografica, dove al posto di Stati Uniti, Africa, Europa, Asia e Oceani troviamo i macrogeneri musicali e al loro interno, invece che le nazioni, i propri sottogeneri. Una fitta rete di arterie autostradali interconnette i generi più o meno direttamente. Tutt’intorno immaginate invece un’enorme, sfavillante, perfettamente rotonda circonvallazione a 4 corsie, con centinaia di migliaia di uscite e sbocchi. Ecco, quella circonvallazione, tutt’oggi moderna, immarcescibile insostituibile come tante delle vecchie infrastrutture tedesche, è “Autobahn” dei Kraftwerk. Ci viaggia, alla velocità che preferisce, sulla corsia più adatta all’occasione, la musica elettronica, allo scopo di raggiungere quel genere o l’altro.
La techno, che altro non è che i Kraftwek chiusi in ascensore con George Clinton, come ha detto il pioniere del genere Derrick May (e anche qui c’è da fidarsi); qui anticipata proprio dalle note di tastiera e dai battiti più insistenti del disco. La house chiaramente, ancor più l’IDM. La new age che risuona in certi aromi dispersi dal flauto, strumento a quei tempi ancora caro ai Kraftwerk. Ovviamente l’ambient e praticamente mezza new wave. Il synth pop dei vari OMD e Depeche Mode. David Bowie, David Byrne, Giorgio Moroder, Madonna, i Royksopp, Bjork, fino ad arrivare ai Radiohead della svolta e alla loro folta progenie.