Nel suo discorso di domenica mattina al Bundestag, il Parlamento tedesco, il Cancelliere Scholz ha descritto come “cambio d’epoca” (Zeitenwende) la svolta impressa alla politica estera, di sicurezza ed energetica della Germania – in una parola, alla sua postura nel Continente e nel mondo.
La guerra di aggressione ordinata da Vladimir Putin in Ucraina ha avuto l’effetto di obbligare non solo la politica, ma anche la società del più grande Paese dell’UE e maggiore economia d’Europa ad una curva a 180°, abbandonando la tenace ricerca di nuovo ordine continentale tutto pacifico e fondamentalmente bicipite come l’aquila degli imperi che furono, ovvero con lo sguardo rivolto ad Occidente per valori, way of life e garanzie di sicurezza, ed al contempo ad Oriente per soddisfare non solo le capacità economiche, ma anche per sentirsi “a posto” in un continente finalmente pacificato. Ove non va dimenticata la basilare importanza della consapevolezza tutta tedesca sul “da che cosa” il continente europeo dovesse essere pacificato, cioè dalle conseguenze dirette ed indirette della Seconda guerra mondiale, voluta e scatenata da Berlino.
Diversi analisti hanno titolato negli anni come “Gerussia” il mostro bicefalo che sarebbe sorto, o dovuto sorgere, da questa politica tedesca e dal tentativo, supposto o meno, consapevole o meno, di instaurare con la Russia un rapporto di tale robustezza da essere decisivo negli equilibri continentali e globali. A chi allora criticava “Gerussia” ed oggi vi legge una fallita ed illusoria politica di appeasement con l’autocrate Putin occorre tuttavia mettere alcune coordinate storiche e politiche in chiaro. Perché accusare en bloc governi e popolo tedesco da Willy Brandt in poi di intelligenza con il nemico è quantomeno un colpo mal tarato.
La storia, dicevamo. Quando oggi Putin parla dell’esigenza di un’Ucraina neutrale, demilitarizzata ed indipendente non può che tornare alla mente l’offerta inoltrata il 10 marzo 1952 da Stalin alle altre tre potenze già alleate (Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia) per una Germania neutrale, demilitarizzata, indipendente e soprattutto unita. Meno di tre anni prima, nel 1949, erano stati fondati i due Stati tedeschi separati e contrapposti: prima la Repubblica federale ad Ovest, poi quella Democratica, la DDR, ad Est. Questa cosiddetta “Nota di Stalin” voleva essere un’offerta allettante per tanti in una Germania in piena ricostruzione, ancora in regime di occupazione bellica e profondamente pervasa dal desiderio di una rapida riunificazione: il dittatore georgiano avrebbe rinunciato ad una porzione piccola di Germania sotto suo esclusivo controllo (la DDR) per avere voce in capitolo in una Germania unita che non fosse né dell’uno né dell’altro blocco e dunque, in un certo modo, di tutti e due. Ad opporsi strenuamente a questa opzione fu Konrad Adenauer, leader della CDU e Cancelliere federale dal 1949 al 1963. Il politico renano perseguiva infatti non solo una linea decisamente anti-comunista ed anti-sovietica, ma anche con energia quella che poi andrà a chiamarsi Westbindung, cioè la piena integrazione della Germania (Ovest) nel blocco occidentale, la sua rinascita economica in un’unione sovranazionale insieme alla Francia ed il suo riarmo nell’ambito dello schieramento guidato da Washington, la NATO. Parallelamente a quanto per l’Italia perseguì Alcide De Gasperi. Se l’offerta di Stalin fosse seria o invece una trappola è tema di lite fra storici nella quale non ci vogliamo né possiamo addentrare, fatto sta che Adenauer vi si oppose con successo e per convinzione. Quest’ultima non scaturiva solamente dalla sua esperienza politica negli anni della Repubblica di Weimar, quando l’allora sindaco di Colonia si oppose alla stessa esistenza in vita come Land della Prussia, il cui cuore (il Brandeburgo con Berlino) sarebbe rientrato dalla porta di una riunificazione dopo esser uscito dalla finestra della divisione fra due Germanie. Il Cancelliere postbellico perseguiva infatti una politica di pacificazione anzitutto con la Francia, per secoli “arcinemico” dei tedeschi, e di integrazione della società tedesco-occidentale nel blocco di valori e potenza dell’Ovest globale. Se dovessimo sintetizzare il ragionamento di Adenauer: meglio una Germania divisa, ma occidentale, che unita, ma non pienamente integrata con l’Occidente.

Oggi pare difficile negare la giustezza della strategia di Konrad Adenauer che, insieme a quella di altri politici del Dopoguerra come De Gasperi e Robert Schuman, fece nascere l’Europa (occidentale) come la conosciamo ancor oggi. Certamente questa posizione adenaueriana si combinava anche ad altri postulati più discutibili, come il mancato riconoscimento non solo della Germania Est, ma anche dei confini post-bellici della Polonia, e l’affermazione che la Repubblica federale da sola fosse legittimo rappresentante di tutti i tedeschi, anche quelli dell’Est, oltreché legittimo erede del Reich. Il cuore tuttavia della scelta di allora – per un’unione pacifica dell’Europa occidentale ed un legame inscindibile e fondante con gli altri Stati dell’Occidente, Stati Uniti in testa – rimane ancor oggi un presupposto irrinunciabile della politica e dell’identità tedesca.
Fu la Germania Ovest post-adenaueriana, post-sessantottina e – politicamente parlando – a guida socialdemocratica ad aggiungere una seconda dimensione accanto alla Westbindung, andando a correggerne la monodirezionalità mediante la nascita della da molti citata Ostpolitik, cioè una politica per e con l’Est. Il simbolo più potente di questa nuova strategia fu la genuflessione del Cancelliere Willy Brandt a Varsavia nel 1970, ma fu la concreta azione politica dei governi Brandt e successivi a portare ad una politica più amichevole verso governi e popoli dei Paesi dell’Europa centrale e orientale, a partire dalla metà orientale della Germania stessa. Ma anche con l’Unione Sovietica. A muovere Brandt e successori fu certamente da un lato la constatazione che la politica di confronto aggressivo con l’Est non avesse portato ad alcuno sgretolamento del blocco sovietico, ma solamente ad un peggioramento e irrigidimento delle condizioni di vita per uomini e donne dell’Europa centrale ed orientale, come gli interventi armati a Budapest e Praga del 1956 e 1968 e soprattutto la costruzione del Muro di Berlino nel 1961 e l’isolamento della DDR dal resto della Germania dimostravano ogni oltre ragionevole dubbio. Non meno potente fu però la sempre maggiore consapevolezza e presa di distanza della società tedesca dal suo passato nazionalsocialista, che proprio dal 1968 e negli anni di Brandt ruppe l’acquiescenza ed il prevalente silenzio degli anni dell’immediato Dopoguerra e assunse presto il ruolo di architrave morale per la società e dunque la politica tedesca interna quanto estera. Quelli della coalizione social-liberale (1969-1982) sono gli anni in un passaggio generazionale tra padri che spesso avevano avuto a che fare in prima persona col nazismo e figli che finalmente misero in discussione a tutto tondo storia e responsabilità del proprio paese, con militarismo e continuità sostanziale fra il Reich e la Germania postbellica sul banco degli imputati. E dunque non è un caso che la genuflessione di Brandt a Varsavia sia avvenuta presso il monumento delle vittime del Ghetto della capitale polacca durante l’occupazione nazista, dal e nel quale trovarono la morte almeno 400.000 persone. Né è un caso che la Ostpolitik nel suo complesso portasse ad una seconda grande pacificazione, dopo quella architettata da Adenauer con la Francia. Ossia con la Polonia, di cui Brandt finalmente riconobbe i confini, e con l’URSS, il Paese che in termini di vittime e distruzione più di qualunque altro aveva patito per mano nazista: 27 milioni di morti, di cui oltre la metà civili. Basti citare, come peso inestricabile per la coscienza tedesca, i tre milioni e mezzo di caduti russi durante il solo assedio di Leningrado (San Pietroburgo, 1941-1944), di cui un milione di civili morti per fame.

Questa contemporaneità di pacificazione ad Est ed ancoramento e pacificazione ad Ovest fu perseguita e proseguita anche da tutti i governi successivi a Brandt, favorita anche da una grande continuità alla guida del Ministero degli Esteri, personificata in modo esemplare dal liberale Hans-Dietrich Genscher, che presiedette alla politica estera della Repubblica federale ininterrottamente dal 1974 al 1992, servendo tanto sotto il socialdemocratico Helmut Schmidt quanto sotto il democristiano Helmut Kohl. E tale doppia dimensione, ancoramento ad Ovest e pacificazione ad Est, è divenuta poi una costante della politica tedesca fino ai giorni nostri, inclusi i cancellierati di Gerhard Schröder (SPD) ed Angela Merkel (CDU). Il Presidente federale Frank-Walter Steinmeier, che nel suo discorso dopo la rielezione il 13 febbraio scorso aveva messo in guardia personalmente Vladimir Putin dal non “sottovalutare la forza della democrazia” e dunque la sua capacità di reazione, ancora a giugno 2021, nel suo discorso ufficiale in occasione dell’80° anniversario dell’aggressione tedesca all’Unione sovietica, aveva posto ai popoli di Germania, Russia, Bielorussia ed Ucraina la domanda: “Non è forse tempo per l’umanità di rinnegare la guerra e di risolvere le questioni più controverse in un rapporto di reciproca considerazione?”. Questa formulazione, che Steinmeier volle riprendere da Boris Popov, un russo sopravvissuto alla prigionia di guerra tedesca fra 1941 e 1945, mette esattamente in luce quel “rapporto di reciproca considerazione” che per cinque decenni la politica tedesca ha cercato di costruire con l’Europa orientale, Russia in primis.
Dipingere ora la strategia tedesca verso l’Est europeo e la Russia dal ’68 ad oggi come ingenua o, peggio, come intenzionale collaborazione con un nemico sarebbe non solo banalizzante e falso, ma anche e soprattutto un insulto alla complessità storica ed una dimostrazione di incapacità di comprendere il senso di colpa di tedesco per gli abomini del nazismo, il quale ha prodotto e produce ancora conseguenze precise nella politica quotidiana. Che oggi, a fronte ad una guerra di aggressione ed invasione in mezzo all’Europa, sia impossibile costruire una pace paneuropea con Putin è evidente. Ed è proprio questa guerra nelle stesse città e negli stessi Paesi dove si svolsero le offensive della Wehrmacht ed i crimini del nazionalsocialismo a cambiare le carte in tavola in Europa e a costringere la Germania ad un cambiamento di rotta profondo e radicale. Che il 1° marzo la Ministra degli Esteri Baerbock ha scandito di fronte all’Assemblea generale dell’ONU in termini inequivocabili: “La guerra della Russia significa una nuova èra. Noi ci troviamo ad un bivio e le consapevolezze di ieri non valgono più. Oggi dobbiamo confrontarci con una nuova realtà che nessuno di noi avrebbe voluto. È una realtà alla quale il Presidente Putin ci ha costretto”.

La decisione del governo di Olaf Scholz che più di tutte, molto più delle sanzioni finanziarie o sul gas, segna una vera svolta è però quella per il riarmo. Dopo decenni nei quali la politica tedesca a tutte le latitudini ha perseguito una politica precipuamente antimilitarista, risparmiando sulle sue forze armate – la Bundeswehr – fino a renderle inservibili e rifiutandosi di attuare gli impegni in sede NATO (giuridicamente non vincolanti) di investimento in armi e difesa, ora viene – è bene ripeterlo perché sia chiaro – il riarmo. L’investimento straordinario di 100 miliardi di euro in sicurezza e difesa e l’impegno ad osservare e superare l’obiettivo NATO di investire ogni anno nello stesso comparto almeno il 2% del PIL comportano infatti non solo una cura da cavallo per la Bundeswehr e le capacità della Germania di assumere un ruolo anche militare in Europa e nel mondo, ma anche una precisa scelta strategica. Ed è questa a segnare una rottura col passato ed un ritorno all’esclusività occidentalista di Adenauer. Perché questa accresciuta capacità militare sarà utilizzata, questa la direzione di marcia dettata, non per una strategia autonoma europea né per una politica bicefala che guardi sia ad Ovest sia ad Est, ma nell’ambito di una inequivoca, rinnovata e prioritaria Westbindung. Nella NATO e con Washington. Nel quale si inserisce il risorgere del dibattito sulla reintroduzione del servizio di leva obbligatorio, qualcosa di semplicemente inimmaginabile fino a pochi giorni fa.

In sintesi e per concludere. La guerra di Putin costringe la Germania a mettere nel cassetto cinquant’anni di Ostpolitik, ad amputare la metà rivolta ad Oriente della sua tradizione politica postbellica e ad un ritorno un approccio tutto ad occidentem di adenaueriana memoria. Che a farlo siano il governo di Olaf Scholz, che fin dal titolo del proprio contratto di coalizione si rifà alla memoria di Willy Brandt, e le forze politiche (SPD in testa) che più di tutte nella storia politica tedesca hanno portato avanti l’idea di un rapporto di reciproca considerazione con la Russia e l’Est europeo, appare come amara ironia della storia. Tutto ciò è, di fronte all’ampiezza degli eventi bellici in Ucraina, necessario – e Scholz ne ha preso atto, traendone le conseguenze dovute. Resta l’amarezza per una chance di pace continentale che almeno nel medio termine è ormai tramontata. E la constatazione che la guerra di Putin in fin dei conti ha riportato Berlino al riarmo e fra le braccia di Washington.