Una premessa è d’obbligo. Il governo federale tedesco che sta per nascere è e sarà un governo europeista.
Non solo perché tutti e tre i suoi partner si riconoscono, pur se con legittimi accenti diversi, “senza se e senza ma” nel progetto europeo. E non solo per quello che si legge nel contratto di coalizione appena siglato dai tre partner, la cui sezione sull’Unione europea ha sì lo stesso slancio retorico di un tabellone ferroviario, ma si distingue per un’efficace catena di riferimenti ai dossier europei più rilevanti dei prossimi anni, sui quali la Germania pare voler far girare le ruote del mulino comune piuttosto che mettere grossi bastoni fra le ruote. Vieppiù i tre partner del governo entrante condividono, come anche la CDU/CSU, la convinzione che un’Europa unita, pacifica e di successo sia una conditio sine qua non perché possa essere garantito il benessere in patria.
Essere europeisti – definizione di lavoro – non vuol dire non vedere anche l’esistenza di interessi precipuamente nazionali o di approcci diversi alla gestione della “casa comune europea”, ma riconoscere che il benessere del proprio paese può essere al meglio garantito tramite un coordinamento con i vicini continentali che sia forte e profondamente incisivo. Se prendiamo per buona questa definizione, possiamo constatare che alle elezioni dello scorso novembre l’80% dei cittadini tedeschi ha votato europeista. E questo, per chi al benessere nel e del Vecchio continente ci tiene, non è certo una cattiva notizia. Qualcuno potrà obiettare che trattasi di definizione larga e data per includere più che per tagliare con l’accetta, ma stiamo pur sempre parlando di un dato storico così ampio – l’Unione europea – da necessitare di una corrispondente ampiezza per l’analisi dei corrispondenti atteggiamenti.

È giusto chiedersi se Lindner sia un falco?
In Italia, nei media di massa e non solo, è ormai da tempo invalsa la tendenza di misurare l’europeismo altrui soprattutto in materia di politica finanziaria. Ed al di là degli attuali testi contrattuali le risposte da parte tedesca passeranno nei quattro anni a venire inevitabilmente da Christian Lindner, leader dei Liberali e prossimo a varcare da padrone di casa la soglia del dicastero federale delle Finanze. Certo Lindner non è una “colomba” dal punto di vista (tutt’altro che disinteressato) dei “sudeuropei” (anche su quest’ultima definizione ci sarebbe, e c’è, molto da dire). Questo però lui lo sa bene e, come ha ammesso in una recente ed assai conciliante intervista alla Süddeutsche Zeitung, non solo rifiuta per sé l’attributo di “falco”, ma si è permesso un appunto molto interessante: certo, la stabilità finanziaria è importante ed il suo Paese la perseguirà, ma la Germania è grande, ha perciò una responsabilità per tutto il continente e non può comportarsi “come un piccolo paese nordico”. Non certo una dichiarazione d’amore per finanze allegre fatte a evasione, prepensionamenti e bonus terme, ma neanche una mano tesa ai rigidissimi “quattro frugali”. I quali furono a suo tempo ribattezzati con disprezzo “i quattro tirchi” (o “quattro taccagni”) da quel Norbert Röttgen, che nella CDU cerca per la seconda volta la via alla leadership e certo non è politicamente un amico di Yanis Varoufakis. Perché anche il liberalismo tedesco, cui possiamo annoverare sia Lindner sia Röttgen, è ben consapevole che non può esserci alcun benessere tedesco se i vicini sprofondano e ciascuno si chiude in casa propria.
La ripartizione partitica dei vertici dicasteriali nel nuovo governo tedesco ci dice inoltre che guardare solamente a Lindner sarebbe un errore. Da una parte perché il (Vice)Ministro agli affari europei, quello che a Bruxelles coordina nel concreto dossier e rapporti, andrà ai Verdi, in quanto in Germania tale posizione è parte integrante del Ministero degli Esteri che sarà guidato dalla co-leader del partito Annalena Baerbock. Sempre in mano verde saranno inoltre i due dicasteri le cui materie hanno più peso nel bilancio dell’UE, ovvero l’Agricoltura e la Transizione ecologica. Sarà dunque tutt’altro che banale vedere come la posizione del nuovo governo tedesco si ripercuoterà sulle varie formazioni tematiche del Consiglio UE e se, eventualmente, si andranno a sviluppare velocità e direzioni di marcia parzialmente divergenti fra la rappresentanza di Berlino nell’Ecofin (in capo a Lindner) e quella in altri formati facente capo al partitone ecologista, come il Consiglio affari generali o Agrifish, il Consiglio dei ministri dell’agricoltura e della pesca, per il quale i Verdi hanno piazzato un pezzo da novanta e tessitore non meno abile di Lindner, l’ex leader nazionale del partito Cem Özdemir.
Dall’altra parte non si può omettere che ovunque – in Germania e altrove – la politica europea la fanno sempre di più i Capi di Stato e di governo, soprattutto per quanto riguarda le scelte di fondo e le direzioni da intraprendere, cosa che ovviamente riguarda anche e forse soprattutto questioni finanziarie e di bilancio. E dunque sarebbe un errore da matita blu immaginare che Lindner si metta da solo a fare il “falco” ed il “taccagno” contro l’avviso di un Cancelliere socialdemocratico quale Olaf Scholz, Ministro delle finanze uscente, esperto di politica finanziaria europea e transnazionale e vero oggetto della polemica dei “quattro tirchi”. Piuttosto sarà interessante capire quali spazi Cancelleria e Finanze (leggi: Consiglio europeo ed Ecofin) si lasceranno a vicenda e quanto Lindner sarà in grado di mediare fra la linea morigerata e rigorista sua e del proprio partito e quella più aperturista di entrambi i suoi partner di coalizione.
Fra la sovranità costituzionale…
Inoltre, individuare nel Ministero delle finanze e nei suoi inquilini il cuore pulsante del rigorismo teutonico significherebbe oscurare dal dibattito il vero grande attore politico che ha dato e dà dei seri grattacapi alla postura europea della Germania: il Bundesverfassungsgericht, ossia la Corte costituzionale federale. Il supremo tribunale con sede a Karlsruhe ha infatti ormai una tradizione per sentenze non esattamente “euro-entusiaste” che, con tutto il cesello tipico della raffinata argomentazione giuridica, hanno considerevolmente ridotto i margini politici di manovra per una partecipazione tedesca ad una dinamica espansiva della costruzione comune europea. E hanno innescato – non casualmente con una sentenza dal tono smaccato ed inelegante sul ruolo della Banca centrale europea durante il mandato di un certo Mario Draghi – un conflitto aperto con la Corte di giustizia dell’Unione europea, alla quale la Commissione europea – presieduta, ironia della sorte, da una tedesca – ha dovuto per forza di cose affiancarsi. Che la giurisprudenza di Karlsruhe si sia cristallizzata attorno alla difesa alla sovranità statuale tedesca contro la tendenza dell’UE a farsi Stato nei fatti (a logico scapito dell’autonomia dei suoi membri) può piacere o meno, ma è un ostacolo assai più rilevante che l’atteggiamento del ministro o del governo di turno. Anche perché ministri e governi possono aggiustare il tiro, cambiare linea o, col tempo, essere pure rimpiazzati, mentre per una Corte costituzionale è un po’ più complicato, specie se questa ha lo standing ed il Selbstverständnis (concezione di sé) di quella tedesca.
Il problema di fondo che caratterizzerà il rapporto fra il governo tedesco entrante e l’Unione europea sarà dunque molto più quello della sovranità costituzionale (con i correlati limiti entro i quali, così la tesi di Karlsruhe, un non-Stato quale la UE dev’essere ricondotto, anche dal punto di vista finanziario) che non la categorizzazione ornitologica del Ministro delle finanze designato. Non è dunque un caso che proprio all’inizio del capitolo sull’Europa nel contratto di coalizione i nuovi alleati abbiano piazzato un interessante paragrafo sui fondamentali costituzionali della costruzione continentale. Questa parte del testo sembra scritta proprio per smussare quegli angoli aguzzati dai patri giudici. Come questo passaggio: “La Conferenza sul futuro dell’Europa [avviata dalla Commissione europea, n.d.r.] dovrebbe sfociare in una convenzione costituente per l’ulteriore sviluppo verso uno Stato federale europeo, il quale sia organizzato in modo decentrato, organizzato anche sulla base dei princìpi di sussidiarietà e proporzionalità e abbia come base la Carta dei diritti fondamentali [dell’Unione europea]”. Ad un esterno possono sembrare formulazioni astruse o promesse vuote, ma alla luce delle sentenze di Karlsruhe e delle petizioni di principio in esse formulate sembra che qui il futuro governo parli a nuora (sé stesso ed i partner europei) perché suocera intenda. O quantomeno cerchi una via per uscire con eleganza dalla situazione di blocco nel quale giudici e Corti hanno cacciato il contributo tedesco ad un ulteriore sviluppo della costruzione europea.
A quello citato segue direttamente un passaggio sul Parlamento europeo, al quale i giudici di Karlsruhe – per dirla con De André – con una sentenza un po’ originale hanno fatto tagliare il collo, negandone in radice la capacità di attribuire legittimità democratica alle decisioni prese a livello europeo. Qui il tono del contratto di coalizione diventa improvvisamente molto concreto, con riferimenti esatti agli atti di riforma del diritto di voto per il Parlamento europeo in corso di elaborazione. Così gli alleati del governo entrante dimostrano di sapere bene che la legittimazione democratica è un tallone d’Achille dell’attuale costruzione europea, senza sanare il quale l’intero edificio europeo rischia di vacillare dalle fondamenta non appena uno Stato membro metta in discussione non tanto la propria appartenenza all’Unione, quanto la legittimità di quest’ultima. Chiedere alla Polonia in caso di dubbi, la cui Corte costituzionale cita a piene mani dai testi dei colleghi tedeschi (a sproposito o no importa, in politica, ovviamente pochissimo).
…e sovranità strategica.
Un altro passaggio cruciale del contratto di coalizione è rappresentato dal ricorrente imperativo della “sovranità strategica” dell’Europa. Il concetto compare più volte nel documento e viene sottolineato con particolare insistenza non solo nell’ambito della politica estera e di difesa comune, ma anche con riferimento alla necessità di un’Europa indipendente dagli altri players globali in materie quali il rifornimento energetico, le tecnologie biomedicali e per la salute, l’importazione di materie prime e quella di prodotti tecnologici. Qui gli ultimi anni non sembrano trascorsi invano, ma soprattutto sembra trascorsa un’èra dal celebre discorso sull’Europa di Emmanuel Marcon alla Sorbona, da questi tenuto non casualmente una settimana esatta dopo le elezioni tedesche del 2017. Quello che il Capo di Stato francese allora forse non aveva considerato era che questa scelta temporale anziché rafforzare la sua proposta per un’Europa più forte e appunto sovrana l’avrebbe indebolita: la Cancelliera Merkel, tutt’altro che entusiasta per la fuga in avanti di Parigi, ebbe gioco facilissimo a rimandare una risposta a dopo la formazione di un suo nuovo governo, cosa che si protrasse per sei mesi, rendendo il tutto superato. Questi anni però, caratterizzati dalle ritirate strategiche e dal “pivot to Asia” di Washington, dalle difficoltà messe in luce dalla pandemia e da una crescente tensione con una Cina ormai non più annoverabile come innocuo partner puramente economico, hanno messo a nudo la necessità che gli europei pensino un po’ di più a loro stessi e siano in grado di contribuire in misura più incisiva al mantenimento ed alla difesa degli interessi occidentali nel mondo.
Il che non vuol dire necessariamente il raggiungimento di quella quota del 2% del PIL in investimenti militari che gli USA si auspicherebbero tanto e che nessun governo europeo ha mai messo nero su bianco in forma giuridicamente vincolante. Il contratto di coalizione fissa vieppiù per la Germania una quota del 3% complessiva per la politica estera, di difesa e di cooperazione allo sviluppo. Segno inequivocabile che la maggioranza parlamentare tedesca ed il governo da questa espresso hanno presente la sfida, ma persistono nel rifiutare (o accettare solo in parte) l’input al riarmo proveniente da Oltreoceano. E che insistono anche nel cercare di instradare questo nuovo e rafforzato ruolo – la sovranità strategica appunto – nelle strutture della cooperazione continentale europea. Da qui l’insistenza molto marcata sulla collaborazione con la Francia e sullo sviluppo delle strutture interne all’UE (anziché alla NATO). Il contratto di coalizione sembra in questi passaggi sembra congedarsi con moderazione dall’approccio di una politica estera “basata sui valori e sui diritti umani”, che portata alle sue conseguenze significherebbe una chiusura della Germania in sé stessa e in un circolo di pochi partner (“grande Svizzera”). Sembra dunque farsi strada un atteggiamento che coniuga con temperanza la indiscussa fedeltà al campo geopolitico capeggiato da Washington ad un’esecuzione dal sapore meno marziale, incentrata sul multilateralismo, gli investimenti per lo sviluppo e la diplomazia. Insomma, uno European way nel corrente (dis)ordine globale.
L’UE rimane un concerto fra le Cancellerie
Occorre però scorrere fino all’ultimissima pagina per capire davvero il tono che i prossimi quattro anni potrebbero avere nei rapporti fra Germania ed Unione europea. O, meglio, per la natura di quest’ultima.
Dopo 176 pagine e mezzo di contenuti segue infatti quello che tutti, in patria e fuori, aspettano con più trepidazione: la spartizione delle “poltrone” fra gli alleati del governo entrante. Occorre dire, per metodo, che in Germania diversamente dall’Italia ad essere divisi sono i ministeri in quanto tali: se il Ministro delle finanze, ad esempio, è un liberale, anche tutti i sottosegretari e/o viceministri di quel dicastero appartengono allo stesso partito. Anche per questo è fondamentale che esista un preciso contratto di coalizione che vincoli tutti i partiti ad obiettivi fissati assieme, altrimenti si rischierebbe che ambiti diversi prendano direzioni divergenti. Eccezioni possono esserci e devono essere regolate esplicitamente. Ed è appunto un’eccezione di questo tipo a mettere a nudo un aspetto fondamentale. Perché il posto di commissario europeo vale, tradizionalmente, come scelta dell’intero governo, una carta da mantenere, se del caso, coperta a lungo durante le non facili trattative con gli altri governi. Il contratto di coalizione appena presentato statuisce invece apertis verbis che “il diritto di proposta per il [prossimo] commissario europeo [indicato dalla Germania] spetta ai Verdi, ove la Presidente della Commissione non venga dalla Germania”.
Alla domanda di un giornalista su cosa questo significhi per Ursula von der Leyen, Presidente in carica della Commissione europea, Olaf Scholz ha dato una risposta diplomatica, ma in sé chiara: “Per quanto riguarda la ripartizione del personale politico [fra i vari incarichi], la questione è assolutamente chiara: Adesso formiamo un governo, però abbiamo considerato anche alcuni casi per il futuro, e questo è formulato il più amichevolmente possibile”.
Che questo annuncio significhi una pietra tombale per le ambizioni di Ursula von der Leyen per un suo secondo mandato è chiaro. L’annuncio è “amichevole” (ma poi mica tanto) nei confronti della Presidente in carica, ma il fatto che questa sia espressa da un partito, la CDU, ora all’opposizione del governo entrante, è sufficiente perché il suo posto sia considerato (a partire dalla scadenza naturale dopo le elezioni europee del 2024) legittima merce di scambio fra i nuovi partner di governo.
Questo fatto, tutt’altro che un dettaglio, apre diverse prospettive di riflessione. Da una parte è chiaro che von der Leyen sia arrivata alla Presidenza della Commissione in esito ad un processo decisionale che ha umiliato il Parlamento europeo e l’idea di una vera campagna elettorale transnazionale, ma che in fin dei conti ha indebolito lei stessa. Von der Leyen non era candidata alle ultime Europee e lo Spitzendkandidat del suo PPE, il bavarese Manfred Weber, fu sdegnosamente rifiutato dai Capi di Stato e di governo nonostante la sua formazione fosse la prima forza nell’emiciclo strasburghese. La mediazione di Angela Merkel cadde – non del tutto casualmente – su una sua fedelissima, von der Leyen appunto, allora Ministra della difesa tedesca, costringendo il Parlamento europeo ad ingoiare il rospo e rimangiarsi i sogni di un dibattito politico unitario europeo. Von der Leyen è e rimane però una creatura dei Capi di Stato di governo dell’UE, indicata a questi dal governo tedesco, e qui il nuovo governo tedesco rende chiaro che questa creatura può essere, all’occorrenza, ritirata dalla circolazione. Autonomia della Commissione? Consultazione dei partner continentali? Facciamo un’altra volta!
D’altro canto il fatto che nelle trattative di governo di uno Stato membro si sia deciso – con tre anni di anticipo – chi sarà o non sarà il prossimo Presidente della Commissione la dice molto lunga sullo stato di cose effettivo dell’UE. Scholz ed i suoi futuri alleati hanno espresso nel contratto di coalizione più volte il concetto di un’“Europa sovrana”, con ciò riprendendo anche in parte le intenzioni di Emmanuel Macron. È chiaro però che quello che qui viene inteso è un’Europa che sia più sì sovrana di oggi verso l’estero, ma non certo un’Europa come struttura di governo sovrana al suo interno. Quest’ultima prospettiva non è di tutta evidenza quella del governo entrante, come non lo era per quello uscente. Rimaniamo ad un’Europa come concerto fra potenze o, più prosaicamente, rete fra le cancellerie, usata per “fare squadra” nel mondo e, se serve, per imporre all’interno del continente politiche concordate fra i governi (“ce lo chiede l’Europa”). Questo era la UE con Merkel e questo continuerà ad essere con Scholz. Perché una mezza frase nella ripartizione dei posti e una battuta per giustificarla dicono più di mille parole.