Anche per chi non segue l’attualità politica tedesca quello della Turingia è stato un caso senz’altro molto interessante e, forse, paradigmatico per capire dati di fondo e tendenze del sistema politico della Repubblica federale.
Causa di questa esemplarità non è solamente il profilo politico del vecchio e nuovo Primo ministro Ramelow, di cui su Kater avevamo fatto già lo scorso autunno un ritratto. Né solamente l’esito indicibile dell’elezione un mese fa del suo successore, la meteora Thomas Kemmerich (FDP), eletto solo per grazia dei voti dell’ultradestra di AfD. Queste due figure non basterebbero a spiegare perché la comparativamente piccola Turingia è stata decisiva per la caduta di Annegret Kramp-Karrenbauer dalla guida della CDU (e dalla prospettiva di diventare Cancelliera) e rivelare la posta in gioco strategica in questa lunga, agonizzante successione ad un’Angela Merkel che, da quando ha deciso di “smettere”, sembra provi molto più gusto nel governare.

Potrà sembrare paradossale, ma la crisi politica turingiana ha portato allo scoperto soprattutto una crisi della CDU pur non appartenendo a questo partito nessuno dei protagonisti di queste settimane. O forse proprio per questo! Il partito cristiano-democratico, “oliata macchina per la Cancelleria” abituata ad essere sempre e comunque protagonista centrale degli avvenimenti, ha perso la bussola perché costretto dagli elettori a quel ruolo gregario in cui la CDU ha spesso (ed assai volentieri) relegato altri: dover portare voti senza poter contare su un ritorno politico di primissimo piano. Non poteva essere diversamente, dopo che le elezioni dell’ottobre 2019 hanno fatto sprofondare i cristiano-democratici al terzo posto e assegnato alla somma degli estremi – Linke ed AfD – la maggioranza assoluta di voti e seggi. In questo contesto, la CDU non poteva pretendere per sé nulla e ha dovuto fare i conti con l’inapplicabilità del suo dettato congressuale, che classifica come intoccabili paria tanto la Linke quanto AfD, cioè appunto due forze fra loro incompatibili ma che, sommate, esprimono in Turingia più della metà dei parlamentari.
Da qui l’emersione della crisi dei cristiano-democratici. I numeri parlamentari costringono ad una scelta fra Linke ed AfD e non consentono più di rispondere “né l’uno né l’altro, sia pure per motivi diversi”. E di fronte a questa scelta c’è più d’uno nella CDU che è disposto a sdoganare politicamente l’ultradestra di AfD e quindi rompere con il tabù numero uno della politica tedesca dalla fine della Seconda guerra mondiale: Mai più nazionalisti di destra al governo. A questo risultato aveva condotto la gestione del partito e del gruppo parlamentare in Turingia da parte di Mike Mohring, che infatti negli ultimi giorni ha dovuto abbandonare la guida tanto dell’uno quanto dell’altro. A sostenere questa posizione in modo più o meno esplicito è anche la Werte-Union (“unione dei valori”), ala destra della CDU che vede nell’ex capo dei servizi segreti Hans-Georg Maaßen il suo uomo più noto (qui il suo ritratto a cura di Kater). Maaßen stesso aveva invitato ancora in mattinata a evitare a qualunque costo un ritorno di Ramelow sullo scranno di Primo ministro, opzione possibile solamente con un accordo (formale o meno) insieme ad AfD.
Le dimissioni di Kramp-Karrenbauer e l’esplosione di questo conflitto sul ruolo della destra nazionalista nel sistema politico tedesco hanno messo molta carne sul fuoco dell’imminente congresso della CDU, che si svolgerà il prossimo 25 aprile. Problematico è anche il ruolo del partito-gemello, la bavarese CSU, in questa disputa. L’attuale leader Markus Söder ha inaugurato un corso apertamente centrista e liberale, dedito alla riconquista dell’elettorato giovane ed urbano, in aperta contrapposizione con la fase 2014-2018, quando a Monaco si era cercata una svolta a destra che, alla prova dei fatti, ha dimostrato di far perdere più voti al centro di quanti se ne immaginava di recuperare agli estremi. Mentre secondo gente come Maaßen AfD sarebbe “carne della nostra carne”, Söder persegue contro di essi una lotta acerrima: AfD è definita come “il braccio politico” di un “terrorismo di destra” la cui pericolosità sarebbe “pari a quella della Rote Armee Fraktion” degli anni ’70. La domanda è però: quanto a lungo la CSU bavarese potrà sostenere questa linea, se nella sorella maggiore CDU preverrà quella opposta? Se a vincere il congresso CDU sarà Friedrich Merz, che propugna un corso schiettamente conservatore e ultra-liberista, quanto spazio rimarrà perché anche la CSU rimanga su posizioni tutto sommato liberali e “verdeggianti”? Quanti voti si rischia di spalancare ai già in formissima Verdi se la CDU si rituffa in un passato da “legge, ordine e meno tasse per tutti”?
Infine, il caso della Turingia ha dimostrato che AfD non si limita più ad insultare il sistema dall’interno, ma ha una strategia precisa. Nell’elezione del Primo ministro turingiano del 5 febbraio e durante le settimane che la precedettero AfD ha cercato di costringere i due partiti di centro-destra – CDU ed FDP – a trattarla come parte di un comune campo “borghese” e “conservatore”, che nel caso turingiano disporrebbe della maggioranza in Parlamento. Pur essendo il primo partito di questo campo, AfD si è dimostrata disposta a rinunciare a quasi tutti gli onori pur di essere riconosciuta quale parte in gioco. Solo alla luce di questo ragionamento si spiega il tentativo di mettere al governo del Land un esponente di FDP, che poi avrebbe governato con ministri della CDU e l’appoggio esterno di AfD. Questo tentativo è, almeno per il momento, fallito di fronte alla reazione di orrore e sdegno di tutta la politica e società tedesche (meno quegli esponenti della CDU che invece per questa opzione fanno il tifo). Se però CDU ed FDP rifiutano di collaborare con AfD e di riconoscerla quale attore di un comune campo conservatore, lo scopo di quest’ultima diventa quello di dimostrare che entrambi i partiti di centro-destra in realtà cooperano organicamente con la sinistra. Quest’accusa di “intelligenza con il nemico” si è sostanziata nella candidatura di Höcke contro Ramelow in questo 4 marzo ed è parte della stessa strategia di un mese prima: cercare di imporsi quale forza a pieno titolo dello schieramento politico, rompere l’isolamento e l’assedio e, dunque, archiviare il tabù che mette al bando la destra tedesca.
Mentre nei primi due scrutini del 4 marzo, dove a Ramelow sarebbe occorsa una maggioranza assoluta, Björn Höcke si è presentato direttamente come candidato alternativo, nel terzo, dove la maggioranza necessaria è quella relativa, ha ritirato la propria candidatura, invitando a votare contro quella di Ramelow, l’unica rimasta. Se anche CDU ed FDP avessero votato contro, il politico della Linke non sarebbe stato eletto e il “campo conservatore” teorizzato da AfD si sarebbe appalesato. Scegliendo rispettivamente astensione e non partecipazione al voto, CDU ed FDP hanno a tutti gli effetti reso possibile l’insediamento del governo a guida della Sinistra, con ciò qualificandosi – almeno agli occhi di AfD – come traditrici del loro stesso mandato. Accusa che, ovviamente, la leadership dell’ultradestra non ha mancato di additare celermente.
Infine, un appunto sulle forze della metà sinistra del firmamento. La coalizione rosso-rosso-verde guidata da Ramelow ha scelto fin dal primo giorno dopo le elezioni di ottobre di perseguire la via di un governo di minoranza (o di maggioranza relativa, se vogliamo). Ciò è senz’altro dettato dalla circostanza di aver perso la maggioranza assoluta, nondimeno questa scelta corrisponde anche ad un’opzione teoricamente fondata in un quadro politico tedesco dove i partiti con rappresentanza parlamentare aumentano di numero e diminuiscono in grandezza. Questa operazione tuttavia, nella quale il centro-sinistra turingiano è stato saldamente sostenuto dai quartieri generali berlinesi dei tre partiti, è riuscita – e solo al secondo, doloroso tentativo – esclusivamente perché nei fatti l’alternativa a Ramelow era Björn Höcke, eroe negativo della Germania contemporanea. Una linea politica che si sostanzi solo in una campagna identitaria contro l’ultradestra sicuramente compatta i partiti tedeschi di sinistra e centro-sinistra (SPD, Verdi e Linke), ma non basta loro per raggiungere stabilmente una maggioranza. Chi, come la nuova leadership della SPD, spera esplicitamente in un prossimo governo federale senza la partecipazione di CDU e CSU, è dunque avvisato: con la sola paura dell’ultradestra si vincono forse alcune battaglie, ma non la guerra.
Questi due voti per il Primo ministro di Turingia nel giro di un mese hanno dunque in sintesi portato alla luce strategie e difficoltà in tutto quel vasto mondo politico che ha avuto in Angela Merkel per tre lustri il suo fulcro. Essi hanno portato alla luce le strategie di chi con la stagione merkeliana vuole assolutamente chiudere svoltando decisamente a destra, prima fra tutti AfD, partito-anti-Merkel per eccellenza, ma anche all’interno della stessa CDU. E hanno fatto emergere le difficoltà di chi vorrebbe invece continuare con un corso di centrismo aperto, liberale ed europeista, ma è a corto di leader spendibili e rischia di rimanere schiacciato in una sorta di pendolo degli eventi. Infine, la vicenda turingiana ha dimostrato che anche a sinistra del centro quello che serve è un profilo chiaro, sia dal punto di vista programmatico sia da quello personale, perché le sole campagne identitarie faticano a produrre risultati. Dimmi che Turingia vuoi, dunque, e ti dirò chi sei.
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