Chi come il sottoscritto ebbe l’onore e l’onere di fare latino a scuola, ricorderà che il principio-chiave per la comprensione (e dunque la traduzione) di una frase imponeva di trovare anzitutto il verbo e poi di ricostruire a partire da questo funzione e natura degli altri elementi.
Se dunque vogliamo cercare di dipanare le nebbie di un’attuale campagna elettorale tedesca che sembra molto una frase ciceroniana (ampia, articolata e non esattamente accessibile per il lettore alle prime armi) conviene in essa cercare un elemento cui tutti gli altri logicamente si accordano e che perciò si distingua dal resto. Il verbo, dunque.

Il 29 ottobre 2018 Angela Merkel annunciò il proprio graduale ritiro dalla politica. E questo, perdoneranno i teologi per la frase dal suono azzardato, è il verbo nel discorso allora aperto (da Merkel appunto) e che si chiuderà solamente con la formazione di una nuova coalizione di governo a valle delle elezioni del 26 settembre 2021. Il ritiro di Angela Merkel è dal punto di vista democratico fisiologia ed anomalia al medesimo tempo. Fisiologia perché dopo sedic’anni di cancellierato (dal 2005) e diciotto di guida del partito (2000-2018) l’alternanza è non solo normale, ma anche in un certo modo sana per evitare (od almeno allievare) sclerotizzazioni negli apparati di potere. Ben più importante, e per noi oggi decisiva, è la componente anomala di quella scelta che maturò – disse l’interessata – gradualmente nel corso dell’estate 2018: Angela Merkel se ne va amata ed imbattuta, senza aver mai perso un’elezione e con valori di popolarità più alti rispetto a qualunque altro politico tedesco in circolazione. Ed il fatto che Merkel se ne vada ancorché amata ed imbattuta determina le condizioni di gioco per la lotta per la sua successione. Ed è esattamente attraverso l’atteggiamento dei principali concorrenti del presente rispetto all’eredità di Angela Merkel che può essere letta l’attuale campagna elettorale tedesca.
“La costante” è il titolo che il giornale economico Handeslblatt dà ad Angela Merkel, che nel suo lungo mandato si è confrontata con 9 Presidenti del Consiglio italiani diversi… e ben 24 allenatori dello Hamburger SV.
Occorre tuttavia fare prima un passo indietro per comprendere o almeno per accennare le ragioni di questa anomalia. Le elezioni del 2017 furono sì vinte dalla Union di e con Angela Merkel, tuttavia con perdite di voti imponenti e con l’ingresso – per la prima volta nella storia tedesca postbellica – di una forza politica di destra etno-populista ed apertamente revisionista nel sancta sanctorum della politica federale, il Bundestag. Non è questa la sede per addossare a Merkel colpe o meriti, giacché in politica chi decide non è l’analista ma il popolo elettore il quale, in quanto sovrano, ha sempre ragione anche quando ha palesemente torto. E dunque il punto è che Merkel ebbe nel 2018 – all’indomani dalla travagliata formazione del suo quarto ed ultimo governo – la capacità di riconoscere che il vento stava cambiando e che era necessario un cambio generazionale per rimanere invitti ed evitare che la sua generazione e lei stessa venissero travolti ad una possibile prossima curva. Conviene qui guardare alla satira per ritornare a quel clima. Non un clima d’astio ed irriconoscenza, ma di desiderio di un salutare ricambio generazionale. Così il pezzo clou del “Nockherberg” di febbraio 2018, la festa invernale della birra a Monaco di Baviera che viene trasmessa in televisione con un ampio musical di satira politica e derisione dei potenti di turno, aveva come titolo e ritornello: “Facci caso, vecchio Horst, ora devi andare” (“Sieh es ein, alter Horst, du musst jetzt gehen”). Con un’esilarante parodia dei due politici della CSU Markus Söder ed Horst Seehofer in contesto western, dove il primo cerca di far capire al secondo che è giunto il momento di passare il testimone (a lui stesso ovviamente). Se capite il tedesco, guardatelo!

Così nel 2018 un cambio generazionale era già in corso nella CSU, togliendo – anche qui con gradualità – dalla prima fila quell’Horst Seehofer con cui Merkel da leader della CDU aveva avuto più di un problema, ed il quale aveva da tempo instradato il partitone popolare bavarese su una strada di inseguimento alla destra di AfD che aveva portato ad uno scontro frontale non solo con Merkel, ma anche e soprattutto con i suoi stessi elettori. Anche i Verdi, appena usciti dalla delusione per un risultato 2017 non strabiliante e per una mancata partecipazione alla coalizione di governo con Merkel stessa, andarono alla radice del problema intavolando a metà 2018 quella svolta generazione e geografica su cui poggiano i loro successi successivi, a partire dal trionfo alle europee 2019 ed al risultato delle politiche di quest’anno che, nella peggiore delle ipotesi ora considerabili, corrisponderebbe comunque ad un raddoppio del risultato di quattro anni fa. Merkel dunque, in arguzia politica tanto imbattuta quanto in popolarità, riconobbe il kairós, il momento opportuno per passare il testimone. Solo che, a differenza dei Verdi, della solidissima CSU e del musical monacense, in casa CDU non c’era nessuno univocamente chiamato a raccoglierlo. E quindi si apre una lotta di successione di cui le elezioni del prossimo 26 settembre sono il capitolo più importante.
Tralasciamo qui un discorso che sarebbe interessantissimo, ossia quello sul tardo cancellierato di Merkel dopo la liberazione di quest’ultima da ruoli di partito, e torniamo dunque a noi, ossia alle strategie dei tre principali concorrenti per raccogliere l’eredità della Cancelliera. Tanta acqua è passata sotto i ponti dal 29 ottobre 2018 ma la domanda aperta quel giorno è ora come allora la questione centrale attorno alla quale si dipanano le strategie dei tre principali concorrenti per la successione di Angela Merkel: CDU, SPD e Verdi. Enumero i partiti e non le persone non tanto per antipatia verso un’eccessiva personalizzazione della politica, quanto e soprattutto perché i candidati sono in tutti e tre i casi frutto di una strategia ad essi preesistente, che è poi quella che qui interessa. Per agevolezza nel racconto seguiremo tuttavia un principio parzialmente cronologico, cominciando da chi ha esplicitato candidato – e dunque strategia – per primo. Cioè la SPD.
I Socialdemocratici tedeschi, più antico partito d’Europa ancora attivo, hanno scelto il loro candidato nell’apparentemente remoto agosto 2020, ma in realtà quasi due anni dopo il fatidico annuncio di Merkel. Olaf Scholz, Ministro federale delle finanze e Vicecancelliere dal marzo 2018 ed in precedenza per sette anni sindaco della città-stato di Amburgo (2011-2018), è un moderato in un partito nel frattempo in mano all’ala sinistra, tant’è che proprio Scholz perse il congresso 2019 contro gli attuali co-segretari Saskia Esken e Norbert Walter-Borjans. Di che cosa voglia dire “sinistra” si pensi ciò che si vuole, fatto è che i due co-segretari della SPD a meno di un anno dalla propria elezione individuarono proprio in Scholz l’unica figura in grado di rappresentare il partito nella corsa alla successione di Merkel e da allora sono riusciti a creare attorno al candidato comune un clima di compattezza di tutto il partito che la SPD da tempo aveva dimenticato. Scholz si candida da Vice in carica di Merkel, forte di un’esperienza di governo lunghissima (era già stato ministro federale una prima volta nel 2007) e con il profilo di uomo del fare che trasmette il messaggio di aver capito che ciò che i tedeschi in maggioranza si auspicano è un mix fra continuità e rinnovamento. La SPD ha dunque scelto una strategia di parziale continuità con Merkel unita ad un profilo di un governante esperto e risoluto. Per questo profilo, che punta di tutta evidenza ad attrarre elettori che nel 2017 avevano scelto la CDU/CSU (e forse in precedenza però la SPD), Olaf Scholz era per il suo partito una scelta naturale. La strategia non era però obbligata, quindi qui bisogna rendere atto alla SPD di una scelta vera, specie se consideriamo che essa è stata compiuta quando la scelta dei candidati presso gli altri partiti era ancora in alto mare. E quindi con il rischio che qualcun altro facesse scelte simili, complicando la situazione.
Quel qualcun altro, però, ha deciso di complicarsi la vita da solo. Stiamo ovviamente parlando della CDU, il cui gruppo di vertice ha attraversato fasi burrascose da quando Merkel ha deciso di appoggiare sul tavolo lo scettro e godersi la scena. La succeditrice indicata da Merkel, Annegret Kramp-Karrenbauer, è stata dilaniata da una guerra intestina con la fazione anti-merkeliana coagulatasi intorno a Friedrich Merz e non è stata in grado di sopravvivere che qualche mese di fronte all’evidenza di un partito che non le dava retta, fatto divenuto palese con la crisi politica in Turingia a febbraio 2020, che infatti la costrinse alle dimissioni. Un merito però AKK l’ha avuto, e visto il seguito esso non può essere taciuto: a lei ed al suo omologo Markus Söder riuscì una vera pacificazione fra CDU e CSU dopo i burrascosi anni del duo Merkel/Seehofer. Questa pacificazione, insieme all’evidente debolezza di AKK dopo le sue stesse dimissioni, ha consentito al Primo ministro bavarese di poter emergere rapidamente in popolarità ben al di fuori dei confini del suo Land, con ciò catapultandolo al centro della partita per la successione di Merkel. Ed è qui che si inserisce davvero il tema della strategia della CDU che per prima cosa, una volta eletto Armin Laschet alla propria presidenza, ha avuto come primo obiettivo il ricompattamento interno del partito, la pacificazione delle lotte intestine e – dunque – il far fuori la CSU dalla corsa alla Cancelleria. Ciò non tanto e non solo per l’affermazione di un non scritto ma realissimo primatus borussicus, un primato prussiano che esclude i bavaresi perché “altri”, quanto piuttosto perché la pacificazione interna del partito è stata scelta come prioritaria sia rispetto ai risultati elettorali sia rispetto alla pacificazione fra CDU e CSU. Abbiamo già parlato a luglio del paragone fra la strategia elettorale della CDU e l’atteggiamento di un artigiano caldaista, che viene in casa non per stravolgerla ma solo per fare l’opportuna manutenzione. La postura della CDU e dunque di Armin Laschet si sta dimostrando però soprattutto basata sulla fiducia sul fatto che i tedeschi aborriscano a tal punto le novità e le svolte che basti pacificare al suo interno il partito al potere per ereditarne per inerzia la massima posizione di comando nello Stato. Il problema per Laschet e la CDU è costituito però non solo dalle gaffes e dai passi falsi dal candidato, quanto da una possibile sopravvalutazione del desiderio di continuità dei tedeschi (certo grande, ma forse non così grande da accettare il primo che passa purché sia dello stesso partito) e della identificazione fra CDU ed Angela Merkel nell’elettorato. La strategia politica di SPD e CDU si rivolge infatti in primo luogo al medesimo gruppo: quei molti elettori che avevano votato la CDU nel 2017 e più ancora nel 2013 soprattutto a causa della candidata Merkel. La SPD tenta di prenderseli con un’offerta autonoma ma vicina all’originale, la CDU li dà per elettori pressoché acquisiti che vanno solo mobilitati al momento giusto e non vanno spaventati con guerre intestine. E riportando la CSU al ruolo che le spetterebbe, cioè la subordinazione.
Rispetto alle strategie complementari di SPD e CDU, rimane un attore principale da nominare, cioè i Verdi. Il partitone ecologista ha avviato nel 2018 un processo di rinnovamento generazione e geografico che ha portato in prima linea due esponenti – Annalena Baerbock e Robert Habeck – più giovani dei predecessori e sino a quel momento forti soprattutto sul territorio e non tanto nel gruppo parlamentare del Bundestag. A Baerbock ed Habeck è riuscita – finora quasi perfettamente – l’operazione di pacificare un partito sin lì dominato da contrapposizioni di corrente fra i “realisti” e la sinistra interna. Ma soprattutto i Verdi hanno fatto in questi anni un’operazione simultanea di apertura ad elettori e sensibilità esterne al bacino elettorale consolidato da una parte e sottolineatura dell’urgenza delle questioni ambientali e climatiche dall’altra, il loro core business. In questo hanno senz’altro giocato un ruolo dinamiche più ampie come, ad esempio, quella attorno a Greta Thunberg ed al movimento Fridays for Future, per cui non senza ragioni si può guardare ai Verdi come ad un partito dello Zeitgeist. Ciò spiegherebbe però solo in parte la concreta strategia dei Verdi per il qui-ed-ora delle elezioni 2021. Essi, infatti, si percepiscono e presentano soprattutto come un partito del cambiamento radicale non tanto secondo l’asse concettuale destra/sinistra, quanto nell’adeguamento della vita collettiva ai paramenti della tutela ambientale e del contrasto al cambiamento climatico. Temi cui l’elettorato tedesco, non da oggi, è abbastanza sensibile. Per cui, mentre SPD e CDU si contendono gli elettori di Angela Merkel con differenti approcci attorno alla ricerca della stabilità, i Verdi esprimono un’offerta soprattutto per quella parte di elettorato desiderosa di un cambiamento. Ad oggi questa strategia sta funzionano bene, ma non benissimo: i Verdi veleggiano in tutti i sondaggi attorno al 18-20%, raggiungendo quindi oltre il doppio dei consensi del 2017 e nei pressi della parità con l’eccellente risultato delle europee 2019, tuttavia la corsa per il primo posto sembra nel frattempo diventata una chimera. Reale è il timore che il potenziale di elettori desiderosi in primo luogo di un cambiamento (nella forma immaginata dai Verdi) si sia in qualche modo esaurito. Difficile dire se per il partito ecologista la campagna elettorale starebbe andando in modo significativamente diverso se fosse stato scelto Robert Habeck anziché Annalena Baerbock come primo verde ad essere esplicitamente “candidato alla Cancelleria”. Da speculazioni di questo genere è meglio tenersi alla larga perché vicino è il rischio rasentare quella famosa frase con la nonna, le ruote e la carriola. Significativa è tuttavia la scelta di Baerbock nella logica, citata, di pacificazione intra-partitica e questo non perché nei Verdi vi fossero quelle guerre intestine che tanto avevano impensierito il vertice della CDU, quanto perché nel partito si sarebbe potuto creare un disagio di sottofondo se fosse stata la candidata donna a rinunciare a favore dell’uomo e non viceversa. La linea politica è infatti, fra Baerbock ed Habeck, grossomodo la stessa. Tuttavia si sa che un partito senza entusiasmo alla base difficilmente ottiene buoni risultati alle elezioni. Chiedere in casa Laschet in caso di dubbi.
Tre candidati, dunque, e tre diverse strategie per la successione ad Angela Merkel, aperta da lei stessa ormai tre anni fa. SPD e CDU si affrontano soprattutto sul piano della stabilità: mescolata ad una dose di voglia di rinnovamento (declinato in termini di maggiore giustizia sociale) in casa socialdemocratica, affidato ad una quasi cieca volontà di continuità politico-partitica in casa CDU. I Verdi invece si posizionano a favore di vento per quegli elettori alla ricerca della discontinuità, declinata quest’ultima soprattutto attorno alle tematiche ambientali e climatiche. Ma è l’oggetto di queste strategie a metterle davvero in comune: ad essere in gioco ci sono soprattutto i milioni di voti di Angela Merkel, non avendo ella potuto, saputo o voluto lasciare un successore designato.
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