Bundestagswahl 2021: analisi degli sconfitti

Scholz vince, Laschet perde ma anche pareggia, della futura coalizione non si sa ancora nulla. Il risultato elettorale tedesco vede alcuni vincitori, ma anche diversi attori che passata la botta dovranno guardare con attenzione alle cause del rispettivo risultato.

Prima di fare un’analisi di chi da queste elezioni tedesche esce senza grandi sorrisi, è necessaria una premessa sul sistema elettorale.

Quello tedesco è un proporzionale non puro. Ciascun elettore ha a disposizione due voti, uno per il collegio uninominale e uno per il riparto proporzionale. Il secondo voto, quello “proporzionale”, pesa di più, perché determina la ripartizione complessiva dei seggi ed è quello conta per la soglia di sbarramento. Anche il primo, però, non è da trascurare, sia per il prestigio politico dei collegi uninominali – “eletti direttamente dai cittadini”, se volessimo usare un linguaggio purtroppo di moda a sud delle Alpi – sia per alcuni effetti complessivi non secondari che la vittoria nei collegi determina. E che vedremo da vicino. Ma ora apriamo il sipario.

Verdi. Una sconfitta di prospettiva.

I Verdi, a rigor di numeri, sono il partito che più ha guadagnato rispetto alle elezioni precedenti: +5,9%, passando dall’8,9% del 2017 al 14,8% nazionale di questa domenica. Se tuttavia parti in quarta come vincitore semi-annunciato e poi alla fine ti ritrovi terzo, qualche problema c’è. Le aspettative dei Verdi erano elevate, ma certamente all’altezza della lunga fase di rinnovamento e rafforzamento del partito messa in campo a partire dal 2018 dai co-segretari Robert Habeck ed Annalena Baerbock. L’obiettivo verso forse non era proprio la Cancelleria, ma l’entrata al governo con un risultato così forte da incidere veramente in un cambio degli equilibri di potere. Questo, francamente, non accadrà.

La strabiliante rimonta di Olaf Scholz ha avuto senz’altro come base gli elettori che furono di Merkel (e della CDU), ma ha anche pescato molto nel bacino che i Verdi pensavano essere loro. Ricacciando questi ultimi nelle roccaforti dalle quali la lunga cura Habeck-Baerbock sperava di averli fatti uscire. Il 20,5% alle europee 2019 aveva reso plastico a quali obiettivi il partito ecologista può legittimamente pensare ed ambire. Ora, tuttavia, la situazione è diversa. Alcuni numeri, per rendere l’idea. In Baviera nel 2018 i Verdi trionfarono (ne avevamo parlato qui) non solo con un bellissimo secondo posto, il 17,6%, ma soprattutto erodendo ben fuori dai grandi centri urbani quella base elettorale della CSU sino a quel momento creduta intoccabile. Anche in Assia il risultato fu simile. Ora la rimonta di Scholz e della SPD riconsegna ai Verdi il terzo posto nel Land di Monaco, un 14,1% da “bene, ma non benissimo”, soprattutto contando che corrisponde a meno della media nazionale (in un Land, come detto, dove tre anni fa si trionfò). Anche l’Est ex realsocialista rimane un terreno ostico, nel quale i Verdi faticano a uscire dalle gabbie del passato. In Sassonia-Anhalt prendono il 6,5%, in Turingia il 6,6%, in Meclemburgo-Pomerania il 7,8%, in tutti e tre i casi con il magro bottino di una sola deputata per Land. In nessun Land dell’Est (pur sempre un sesto del Paese) i Verdi riescono a superare il 10%.

Certamente, la segreteria nazionale dei Verdi cercherà di far fruttare quel quasi 15% al meglio, mettendo sul piatto che senza il partito ecologista non può esser formato nessun governo che non sia una nuova, ennesima Große Koalition fra CDU/CSU ed SPD. Però con questo risultato – ed i Liberali di Chistian Lindner così vicini (11,5%) – i Verdi faranno fatica ad essere il motore del nuovo governo e rendersi in esso riconoscibili. Per cui, anche se aritmeticamente hanno vinto, l’obiettivo è stato mancato.

Armin Laschet e la CDU. Una Caporetto.

Quella della CDU, il partito che portò alla Cancelleria Konrad Adenauer (1949-1963), Helmut Kohl (1982-1998) ed Angela Merkel (2005-2021), è una sconfitta di dimensioni epocali. Una responsabilità decisiva è da attribuire senza dubbio alcuno ad Armin Laschet (lo vedremo fra poco), il quale però ad urne appena schiuse è parso far finta di niente e si è messo a parlare di un suo futuro governo con Verdi e Liberali. Certo, questa prospettiva non è ad oggi del tutto esclusa, ma parlarne in modo così ostinato significa chiudere gli occhi di fronte all’entità della disfatta. La geografia elettorale è un’arma potentissima per capire flussi, vittorie e sconfitte. Così fa tremare i polsi a più d’uno la visione di una CDU rintanata in roccaforti storiche nell’Ovest e Sud della Repubblica, che in tutto l’Est conquista solamente 7 collegi elettorali su 49 (nel 2017 erano stati 44). Due carte ci aiutano a rendere plastica la situazione della CDU: quella delle sue perdite per Land e quella dei cambi di mano nei singoli collegi elettorali.

Cambio di colore politico nei collegi elettorali (2021 vs. 2017). Ciò che ovviamente più salta all’occhio è la marea rossa ad Est e a Nord del Paese. Se tuttavia anche Verdi ed AfD riescono a conquistare diversi collegi, lo sconfitto è (a parte in tre soli casi) sempre lo stesso: la CDU. (Dati: Bundeswahlleiter).
Perdite percentuali della CDU per Land. A Nord ed Est della Germania le dimensioni sono imponenti, ma in realtà in nessun luogo il partito si salva davvero, neanche nella regione natia di Armin Laschet. La mappa è consultabile nel dettaglio qui.

Il rovinoso risultato della CDU travolge anche diversi esponenti di primissimo piano, che hanno perso il proprio collegio elettorale a favore di socialdemocratici pressoché sconosciuti e riescono a salvare il proprio seggio solo attraverso il “paracadute” delle liste proporzionali. Fra questi Annegret Kramp-Karrenbauer, Ministro della Difesa in carica e predecessora di Laschet alla guida della CDU (2018-2020), il capo della Cancelliera Helge Braun ed il di lui precedessore ed ora Ministro dell’Economia Peter Altmeier. Quest’ultimo, da molti considerato un alter ego di Angela Merkel nelle questioni di partito, non l’ha ora mandata a dire e ha parlato esplicitamente di “un risultato che non ci sarebbe potuti immaginare neppure nei peggiori incubi”. A proposito di Merkel, anche il suo ex collegio elettorale in Pomerania, vinto da lei ininterrottamente dal 1990 in poi, è stato perso a vantaggio di un candidato della SPD locale. 

Foto: dpa

Inutile negare che fra le cause della sconfitta quella forse più grande abbia un nome ed un cognome: Armin Laschet. Addirittura l’86% degli ex elettori di CDU e CSU arrivano a dire, secondo le rilevazioni, che avrebbero preferito un altro candidato cancelliere, solo il 10% degli elettori dell’Union riconduce all’attuale Primo ministro del Nordreno-Vestfalia la propria scelta. E tuttavia è vera anche l’altra faccia della medaglia: il quasi pareggio con la SPD è da ascrivere alla mobilitazione, per lo più dell’ultimo minuto, degli elettori più fedeli. Questa parte della campagna è (almeno parzialmente) riuscita, spiegandosi così anche la forte concentrazione di voti della CDU nelle sue storiche roccaforti ad Ovest e Sud del Paese. E tanto basta per vendersi come una forza ancora potenzialmente in grado di partecipare al governo e forse financo di guidarlo. Se quindi Scholz da una parte ha rianimato e salvato una SPD che per anni è sembrata esangue, in casa CDU sono stati gli elettori storici a salvare un candidato non voluto da pressoché nessuno.

Solo il 10% degli elettori dell’Union (CDU e CSU) dichiara che non avrebbe votato questi partiti se non ci fosse stato Armin Laschet, mentre l’86% dei suoi ex elettori dichiara che avrebbe preferito un altro candidato cancelliere (Fonte: ARD/Infratest dimap).
Solo il 18% degli elettori dell’Union dichiara che il candidato cancelliere è stato “importante” per la scelta, mentre il 45% descrive come importante il programma elettorale ed il 30% l’affinità di lungo periodo con il partito (Fonte: ARD/Infratest dimap).

Se la Prussia piange, la Baviera non ride.

Una débâcle di dimensioni storiche è toccata non solo alla CDU, ma anche all’altro partito democristiano tedesco, la bavarese CSU. La serie storica dà un’idea delle dimensioni della svolta: nel 2013 la CSU aveva in Baviera il 49,3%, nel 2017 38,8%, nel 2021 31,7%. In breve: da un partito che monopolizzava il discorso pubblico ed aveva la pretesa di rappresentare l’intera società ad uno che sì arriva primo, ma non è più in grado di dirsi né l’unico interprete della società né un interprete di tutta la società.

Anche qui alcuni dati riescono a rendere il quadro non del tutto drammatico: anzitutto i collegi elettorali, nei quali la CSU raggiunge comunque un granitico 45 su 46, alcuni dei quali (sempre meno) ancora conquistati con percentuali da bei vecchi tempi. Anche il rapporto fra i due partiti democristiani CDU e CSU si sposta sempre più a favore dei bavaresi, a causa delle ben maggiori dimensioni della sconfitta in casa degli “altri”: se nel 2013 e nel 2017 la CSU esprimeva il 18% del gruppo parlamentare comune nel Bundestag, ora ne esprimerà il 23%, quasi un quarto. Tradotto: l’apporto dalla Baviera è sempre più decisivo e necessario per la sopravvivenza al potere dell’Union. Ovviamente Markus Söder e i suoi sanno bene tutto ciò e c’è da scommettere che cercheranno di usare molto bene questo golden power.

Tuttavia queste consolazioni tattiche non possono adombrare i problemi strategici. Con Söder la CSU ha imboccato un corso deciso, volto a rendere il partito più attrattivo per quelle (ampie) fette di elettorato che in misura maggiore gli avevano voltato le spalle nel 2017/2018: gli elettori più giovani, quelli dei centri urbani, l’elettorato femminile. Anche la linea politica di Söder durante i vari lockdown pandemici, all’insegna della durezza e della prudenza, ha colpito in maniera più forte l’elettorato storico della CSU. Un partito che si faceva e sapeva forte per essere quello compreso dalla gente comune “in osteria” alla fine è stato punito aver voluto chiudere, con molto più rigore di altri, proprio le osterie. E qui un dato fa male alla CSU e dà buone argomentazioni agli oppositori interni di Markus Söder: lo straordinario 7,5% raccolto in Baviera a queste elezioni dai Freie Wähler, elettori “liberi” e civici che della CSU sono partner di governo a Monaco ed il cui leader, Hubert Aiwanger, ha condotto una campagna elettorale molto aggressiva proprio sui temi attorno alla pandemia, i lockdown e le vaccinazioni. Un risultato ancor più chiaro nella sua durezza se consideriamo che a chiunque, elettori inclusi, era chiaro che difficilmente i Freie Wähler avrebbero superato le soglie di sbarramento necessarie per entrare al Bundestag. Il voto a loro, quindi, si configura come una vera e propria protesta nei confronti del vecchio partitone bavarese, concentrata fuori dalle grandi città e socialmente lontana da quei ceti che la CSU ha cercato in questi anni di riavvicinare. A Söder viene così servita una dimostrazione del fatto che la CSU non fa (più) eccezione nella crisi dei partiti popolari di massa: se ti volti da una parte (come Söder fa con l’elettorato giovane e urbano) perdi dall’altra, tenere insieme tutto è sempre più difficile.

Sprofondo rosso.

Fra gli sconfitti di queste elezioni non può essere dimenticata quella della Linke, il partito della Sinistra tedesca. Nata per unificare i post-comunisti dell’Est con tutti quelli più a sinistra dei due partiti di centro-sinistra, SPD e Verdi, tutto sommato non radicali, la Linke sembra da tempo aver perso la bussola e sicuramente ha perso questa tornata elettorale. Il partito raccoglie un misero 4,9% ed entrerà nel Bundestag solo grazie alla clausola di “salvataggio geografico”, per la quale i partiti che conquistino almeno tre collegi uninominali sono esentati dalla soglia di sbarramento nazionale del 5%. E i collegi conquistati dalla Linke sono esattamente tre: due nella ex Berlino Est ed uno a Lipsia.

Anche qui la geografia politica elettorale è chiarissima: la Sinistra tedesca sembra aver perso ormai quasi del tutto la base che fu della PDS post-comunista, senza riuscire a conquistare spazi nuovi nella società. Il risultato 2021 certifica ancora una forza relativa all’Est (10% dei voti nella ex DDR), che però non è più sufficiente né in sé né per compensare la debolezza del partito all’Ovest (3,6% nella “vecchia” Germania). Nel nuovo Parlamento federale potrà costituire un gruppo parlamentare a pieno titolo (Fraktion) per il rotto della cuffia: il minimo sarebbe un ventesimo dei seggi, cioè 37, e la Linke ne ha ottenuti 39.

Con questo risultato sprofondano non solo i desiderata di quanti si auspicavano una possibile maggioranza rosso-rosso-verde, fosse anche solo come spauracchio per indurre i Liberali di Christian Lindner a più miti consigli. Molto di più si apre per il partito un’impresa titanica di rinnovamento interno e di ricerca di nuovi elettorati di riferimento, senza i quali la rappresentanza ora garantita dal rotto della cuffia di leggi elettorali e regolamenti parlamentari andrà inevitabilmente ad esaurirsi. 

Edoardo D’Alfonso Masarié

@furstbischof

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